L’Apocalisse non è affatto apocalittica, al contrario è “un quinto Vangelo”
Le parole e soprattutto le immagini dell’Apocalisse (l’ultimo libro della Bibbia) hanno affascinato e inquietato generazioni e generazioni di esseri umani, credenti e non credenti, che hanno letto le sue pagine come se fossero la chiave interpretativa del loro presente (di ogni presente), e soprattutto del futuro imminente (di ogni generazione): un giudizio divino catastrofico, un terribile castigo destinato a coinvolgere tutti i popoli del mondo e la natura intera. Anche oggi ci sembra di vivere un’epoca inquieta di trapasso, con le sue ansie e con le sue immagini “apocalittiche”: Auschwitz, Hiroshima, Cernobyl, il Medio Oriente in fiamme, il riscaldamento globale del clima... Un’epoca che sembra preludere a catastrofi peggiori e che stimola prediche minacciose, non più prerogativa di estremisti religiosi ma anche di politici.
L’APOCALISSE,
però, pur non nascondendo la drammaticità dell’esistenza, non vuole essere terrorizzante, non vuole incutere una paura mortale, ma vuole esprimere prima di tutto il senso della maestà e della sovranità del Signore, capace di intervenire e raddrizzare il corso delle esistenze personali e anche della storia. All’inizio del libro (cap. 1,9- 20) troviamo come prima immagine proprio la visione regale del Gesù Risorto in tutta la sua gloria e potenza: la veste lunga e la cintura d’oro sono emblemi regali (o, per lo meno, di personaggio di altissimo rango); i piedi di rame, la voce, il volto splendente esprimono potenza; i capelli bianchi non significano vecchiaia, ma eternità, la spada a due tagli che esce dalla sua bocca è il simbolo dell’efficacia della sua parola. Anche lo sguardo fiammeggiante è simbolo di autorità e di potenza.
Di fronte a questa maestà e so
vranità, il credente sente il peso della propria condizione di indegnità e piccolezza: la pura e semplice presenza – anche muta – del divino provoca uno sconquasso tale da mettere in ginocchio qualsiasi coscienza credente: “Quando lo vidi, caddi ai suoi
piedi come morto” (cap. 1,17). Ma come in passato in casi analoghi, troviamo la stessa parola di sempre: “Non teme
re” (cap. 1,17). Una parola che riabilita il credente di fronte a se stesso e gli consente di ascoltare l’affidamento di una missione: “Scrivi le cose che hai visto” (cap. 1,19), e qui, in più, c’è anche una mano rassicurante che si posa sulla spalla (o sul capo) del testimone: “Egli pose la sua mano destra su di me” (cap. 1,17). Il personaggio della visione si presenta come “il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e
dell’Ades” (cap, 1,17-18), cioè come Colui che controlla e domina il grande avversario: la morte e il soggiorno dei morti.
NELL’APOCALISSE, perciò, scopriamo lo stesso evangelo (“Buona Notizia”) di altri testi biblici, la stessa grazia riabilitante, la stessa fiducia del Signore che viene e affida ai suoi testimoni compiti di grande responsabilità. Un Signore non solitario, che si trova fra le sue chiese, i “sette
candelabri” (cap.1,12): una bella immagine della vocazione della chiesa a vivere accanto al suo Signore e a diffondere non una luce propria, ma la luce di Cristo e di tenerla alta, ben visibile al mondo. Rispettiamo dunque quest’ultimo libro della Bibbia ascoltando quello che dice veramente e non le nostre fantasia angosciate e“apocalittiche ”. Perché si presenta come “un
quinto vangelo” (G. Comolli, Apocalisse. Il libro del mondo rinnovato, Claudiana 2017) in cui il Gesù Risorto torna un’altra volta a confermarci che sono in preparazione per tutti noi “un nuovo
cielo e una nuova terra”, dove non ci sarà più dolore né morte né ingiustizia perché “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (cap.
21,1-5).
“LA BUONA NOTIZIA” Pur non nascondendo la drammaticità dell’esistenza, l’ultimo libro della Bibbia esprime innanzitutto la maestà di Dio