Il Fatto Quotidiano

Zero ambiente e temi pubblici: i brani uccidono la kermesse

- » ELISABETTA AMBROSI

Salvare Sanremo? Impossibil­e. Certo, si potrebbero piazzare accanto ad Amadeus un paio di donne scorfane per mettere a tacere le polemiche sulle ospiti “tutte bellissime”. Si potrebbero chiedere altre scuse del conduttore dopo la gaffe del secolo, quella che considera virtù femminile il saper stare un passo indietro un “grande uomo”. Si potrebbe, infine, cacciare il rapper che nel cassetto ha canzoni che inneggiano al femminicid­io (una buona idea, forse, ma all’inizio, dopo che senso ha?). Insomma si potrebbe fare tutto questo, ma non servirebbe a salvare Sanremo. Perché a ucciderlo ci pensano già loro, e cioè le canzoni. Abbarbicat­e, e pure in maniera piagnona, sul tema amoroso come se nient’altro esistesse, dipendenti – quest’anno come gli anni passati – da delusioni sentimenta­li, malinconie varie, sofferenze emotive trite e ritrite. Per carità, si dirà, Sanremo è nazionalpo­polare, non ci si aspetta che parli di povertà, disuguagli­anze sociali, migranti, crisi demografic­a, crisi climatica. Eppure, a pensarci bene, “popolare” è un registro, non un contenuto. Insomma si potrebbero cantare temi più alti, facendolo in maniera leggera – “Una vita in vacanza” docet – e stimolando la gente a pensare oltre i propri ombelichi e oltre la celebrazio­ne della propria, inutile, interiorit­à. Sanremo è sempre stato vecchio, ma oggi sembra più senile che mai. D’altronde, è lo specchio della tv italiana: che quando crede di essersi modernizza­ta è ancora decrepita, che quando comincia a parlare del mondo là fuori, lo fa troppo tardi, che quando parlerà di ambiente saremo già estinti. Per questo, lungi dal rallegrare, il Festival incupisce, induce una mestizia senza fine all’idea dei soldi sprecati per celebrare la solita poltiglia amorosa, senza ironia né allegria. E l’unica cosa che ti viene da pensare è, appunto, quanti alberi si sarebbero potuti piantare con quegli assurdi cachet.

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