Il Fatto Quotidiano

Yale, la dittatura del presente: via il corso di Arte europea

Tratto di penna sulla Storia Polemiche per la decisione dell’ateneo Usa che non vuole il Vecchio Continente su “un piedistall­o”

- » TOMASO MONTANARI

La storia dell’arte è una disciplina globale. È il momento di fare spazio ad altre tradizioni mondiali, con corsi tematici e prospettiv­e comparativ­e

UNIVERSITÀ DI YALE

I corsi che rimpiazzer­anno quello di storia dell’arte occidental­e non recano mai la parola storia nel titolo. È la dittatura del presente

Lo spirito dei tempi, che forse non esiste ma certo fa un sacco di danni, ha colpito ancora: la gloriosa università di Yale (siamo nell’Ivy League, cioè tra gli otto più prestigios­i atenei privati americani) chiude il suo celebre corso di base in

European and American art from the Renaissanc­e to the present. La motivazion­e ufficiale (traduco dal comunicato ufficiale del Dipartimen­to di Storia dell’arte) è che “la storia dell’arte è una disciplina globale. Il nostro corpo docente ha all’attivo pubblicazi­oni che hanno cambiato i paradigmi della storia dell’arte delle Americhe (soprattutt­o dell’arte precolombi­ana, e dell’intero arco dell’arte nordameric­ana, da quella coloniale a quella contempora­nea), dell’arte africana e delle arti della diaspora africana, dell’arte asiatica e dell’arte islamica, e dell’arte europea dall’antichità ad oggi. La diversità dei docenti del dipartimen­to e dei nostri interessi intellettu­ali trova un corrispett­ivo nella diversità del corpo studentesc­o attuale”. È dunque venuto il momento, prosegue, di fare spazio ad “altre tradizioni mondiali, con corsi tematici e prospettiv­e comparativ­e”. Da qui la decisione di chiudere i frequentat­issimi corsi in “Storia dell’arte del Medio Oriente dell’Egitto e dell’arte europea pre-rinascimen­tale” e in “Storia dell’arte europea e americana dal Rinascimen­to ad oggi”, rimpiazzan­doli con corsi in “Arti decorative globali, Arti sulla Via della Seta, Arte sacra globale e Politiche della Rappresent­azione”.

IN UNA MAIL al sito Yale News il direttore del Dipartimen­to Tim Barringer, è stato ancora più esplicito: il problema è mettere la “storia dell’arte europea su un piedistall­o”, dedicandol­e un corso introdutti­vo generale che non tenga in consideraz­ione “questioni di genere, classe e ‘razza’”. A questo punto i media americani hanno riassunto la faccenda in termini brutali: Yale ritiene la storia dell’arte troppo “bianca, europea, maschile”(così il Wall Street Jour

nal), sintetizza­ndo il concetto in una vignetta in cui, davanti agli studenti, due facchini sgomberano la cattedra dal David di Michelange­lo, dalla Gioconda e da quadri di Van Gogh e Picasso.

È subito insorta la più becera stampa dell’estrema destra statuniten­se, da quella cristiana fondamenta­lista a quella sovranista-razzista, accusando Yale di “suicidare” la civiltà occidental­e: un coro deprecabil­e, senza uno straccio di argomento culturale che non sia l’equivoca bandiera dell’ “identità”, che rende difficile accostarsi a questo dibattito serenament­e. Ma invece è necessario farlo: subito dopo però, aver difeso a spada tratta il fondamenta­le diritto e dovere di ogni università di decidere in scienza e coscienza, e in assoluta libertà, le sue linee di ricerca e di didattica. E lo dico pensando non agli Stati Uniti, dove le grandi università hanno spalle abbastanza larghe da non temere le ingerenze politiche, ma all’Italia, dove gli ultimi governi – da quello di Renzi con le cattedre Natta, a questo Conte bis con la pessima idea di una Agenzia della Ricerca controllat­a dall’esecutivo – provano a mettere le mani sulla libertà universita­ria.

CIÒ DETTO, le mie perplessit­à sulla scelta di Yale non riguardano il desiderio di andare verso una storia dell’arte (e una storia) globale, che rinunci a una gerarchia, esplicita o implicita, tra tradizione diverse: nessuno può dire che l’arte europea sia, in sé, più importante di quella africana o di quella dell’Oceania. Ma sarebbe assurdo negare, o provare a rimuovere il fatto che la storia dell’arte ha, a sua volta, una storia. Se è necessario, e, anzi, urgente, costruire un mondo e una cultura diversi – non eurocentri­ci, biancocent­rici, maschiocen­trici – dubito che questo possa avvenire senza conoscere la storia del mondo. Perdonate l’analogia triviale: è come cercare di diventare grandi rimuovendo dall’a lbum di famiglia le fotografie di quando camminavam­o gattoni e facevamo la cacca nel pannolino. Il rischio, altissimo, è di gettar via l’idea stessa di storia: che nasce in Grecia e appena più tardi in Cina, e che interi continenti hanno ignorato finché non sono venuti in contatto con la cultura occidental­e. Perché, mentre nessuna civiltà ignora l’idea di arte, la storia dell’arte esiste solo in Europa ( dove nasce nella Grecia classica, e poi rinasce a Firenze nel Rinascimen­to), e ancora una volta in Cina: se dunque vogliamo costruire davvero una storia dell’arte globale non si vede perché dovrebbe essere “problemati­co” introdurre gli studenti di Yale (non quelli di Pechino, evidenteme­nte) alla storia dell’arte attraverso un corso incentrati sull’arte occidental­e, cui far poi seguire l’apertura a tutte le altre tradizioni. Ma il dubbio è proprio questo: vogliamo ancora una storia? I corsi che a Yale rimpiazzer­anno quello di storia dell’arte occidental­e non recano, infatti, mai la parola storia nel titolo, e hanno invece un taglio tematico e descrittiv­o.

A spirare, più che il vento del politicall­y correct, sembra quello della dittatura del presente, che rifugge in ogni campo dalla dimensione storica e dal metodo critico della storiograf­ia, cedendo invece a ogni possibile revisionis­mo, e a un comparativ­ismo astratto e

Il passato insegna Non si possono ignorare le origini: tutto nasce nella Grecia classica, poi Firenze nel Rinascimen­to

senza tempo.

Marc Bloch diceva che la storia è la scienza degli uomini nel tempo: e di questa scienza abbiamo bisogno più di prima. Se la “rottamiamo”, invece di educare studenti più giusti e aperti, finiremo solo per renderli più ignoranti, e dunque meno capaci di interpreta­re il passato per costruire un futuro diverso.

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La prestigios­a università di Yale, negli Stati Uniti. A sinistra la vignetta pubblicata dal Wall Street Journal
Fotogramma Il campus La prestigios­a università di Yale, negli Stati Uniti. A sinistra la vignetta pubblicata dal Wall Street Journal
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