Il diario di Francesco Rosi sulle orme di Che Guevara
BOOK BOOKS Il regista viaggiò a Cuba e in Bolivia: gli appunti in un volume
I199 giorni del Che, a cura di Maria Procino, Rizzoli editore, è appena uscito in libreria. E non c’è dubbio che sarà riconosciuto subito per un documento importante di un importante autore del cinema italiano. Sono gli appunti di conversazione e di viaggio di Francesco Rosi con guerriglieri, intellettuali, politici, comandanti e contadini che hanno conosciuto Che Guevara e sono stati, in un modo o in un altro, parte del sogno di rivoluzione che comincia quando il giovane medico argentino raggiunge Castro sulla Sierra di Cuba e finisce nella mai dimenticata immagine del corpo esangue dall’espressione dolce della famosa fotografia inconsciamente ispirata dal Mantegna.
IN QUESTO LIBRO c’è il diario di Rosi che vuole fare quel film, ma anche il diario della lunga e profonda riflessione ispirata da Shakespeare e dal tradimento e uccisione di Cesare, dal rapporto libero e tormentato di Rosi con la sinistra politica come costruzione partitica (comunisti italiani, comunisti cubani) e culturale (che cosa è ammesso, che cosa è escluso), e da una infinita diffidenza della politica per la cultura, ripagata dal guardare, sapere e non obbedire che era, secondo Rosi, il dovere dell’intellettuale e la sola via per l’artista. C’è però un equivoco che potrebbe ingiustamente pesare su questo libro, che è stato reso possibile, oltre che dalla brava curatrice, dalla attenzione assidua e intelligente che la figlia Carolina ha mantenuto sul lavoro del padre.
Con lui è stata vicinissima (aiuto regista, confidente, attrice) e lontanissima (la sua è una splendida vita di teatro in cui è sembrata occuparsi del mondo e della vita pubblica in un modo completamente diverso). Invece, dimostrano sia l’introduzione della curatrice, sia la bella amorosa dedica in testa al libro della figlia al padre, che l’amore qui non è omaggio ma capacità di sapere, di capire e di aiutare a ricostruire i bellissimi quaderni in cui Rosi ha narrato la sua avventura nel seguire e indagare l’avventura del Che. Dunque non pensate a un tributo di affetto e rispetto, pensate a un importante narrazione critica.
In essa non solo è bello il linguaggio da libro d’avventure dei diari di Rosi. È bello e importante il ritratto dei comunisti italiani che vi prendono parte (e che sembrano più sacerdoti di una fede perenne che militanti di una politica in corsa ) e dei comunisti cubani, che Rosi disegna con bravura di ritrattista e tocchi di “cubanità” che spiegano perché le sceneggiature di Rosi, prima ancora dei film, sono così belle. I due momenti alti, due prove di un talento letterario che avrebbe fatto di Rosi un importante scrittore se il cinema non lo avesse stregato, sono la lunga attesa a L’Avana, con Fidel Castro che tarda e rinvia, e la celebrazione di Guevara morto, che vuol essere un grande funerale ma non un grande dibattito pubblico e critico sulla rivoluzione.
E POI C’È LA NARRAZIONE della lunga, estenuante esplorazione dei sentieri perduti della Bolivia dove Che Guevara è ormai un leader finito, prima ancora di essere ucciso. Prima ancora di essere esposto come trofeo, pauroso e gentile, che ha generato la forza straordinaria del ricordo. Quel ricordo non era lo stesso per tutti. Alcuni erano tormentati come da demoni shakespeariani, altri lo hanno abbracciato subito. Per questo Francesco Rosi voleva fare a tutti i costi quel film. Non glielo hanno fatto fare. E il libro, che la curatrice Procino e Carolina Rosi hanno tenacemente reso possibile, ci spiega, come un romanzo thriller, perché.