Il Fatto Quotidiano

“PARASITE” NON È ANTICAPITA­LISTA, MA LA STORIA DI UNA SCONFITTA

L’ULTIMA ILLUSIONE La lotta di classe della famiglia Kim “contro i padroni” finisce per rivelare come l’equilibrio delle società disuguali si regga sul fatto che chi sta al fondo della scala sociale accetta e legittima un gioco in cui perderà sempre

- ▶ STEFANO FELTRI

La pioggia di premi Oscar su Parasite e gli unanimi consensi di critica hanno celebrato il film del coreano Bong Joon Ho anche per la sua capacità di raccontare la disuguagli­anza di condizioni economiche che, ormai ne sono convinti quasi tutti, è una delle minacce più serie alla coesione delle nostre società occidental­i (la Corea del Sud è orientale nella geografia, ma occidental­e nel modello di sviluppo).

Questa scelta proprio di Parasite come narrazione condivisa della disuguagli­anza – e non, per esempio, un qualunque film di Clint Eastwood degli ultimi dieci anni – dovrebbe sollevare qualche perplessit­à: siamo sicuri che usare Parasite come paradigma del dibattito sulle disparità di redditi e ricchezza sia un passo avanti verso la soluzione del problema? O indica invece che siamo ormai rassegnati?

Chi ha guardato con attenzione il film capisce la domanda, perché la storia della famiglia Kim inizia come un tentativo di riscatto e si conclude ( spoiler) con l’accettazio­ne delle divisioni tra classi, con la rassegnazi­one all'impossibil­ità del cambiament­o se non attraverso le illusorie promesse della meritocraz­ia. Parasite racconta la disuguagli­anza, ma porta ad accettare lo status quo, dopo l’effimera ebbrezza della rivolta.

La Corea del Sud è un Paese con problemi simili a quelli delle democrazie occidental­i. I vecchi invecchian­o e i figli latitano: ha le famiglie più piccole del mondo, le donne fanno 1,1 figli in media (erano 5,6 negli anni Cinquanta, prima che il Paese iniziasse il suo fenomenale sviluppo industrial­e). La generazion­e a cui appartengo­no i giovani Kim di Parasite è quella dei “Sampo” che hanno rinunciato – o dovuto rinunciare – a tre cose: relazioni sentimenta­li, figli e matrimonio.

La disuguagli­anza tra i redditi è alta: l’indice di Gini (tra 0 e 1 dove 1 è la massima concentraz­ione di ricchezza nelle mani di pochi) è 0,35, più elevato che in Italia (0,33) ma più basso che negli Stati Uniti (0,39). Il record negativo, tra i Paesi industrial­izzati dell’Ocse, la Corea ce l’ha soltanto per la disparità di redditi tra uomini e donne, con queste ultime che hanno redditi più bassi del 61 per cento perché l’occupazion­e femminile è molto bassa. I problemi sono quindi più o meno quelli che hanno alimentato la rivolta populista in Occidente. Ma quali sono le reazioni che racconta Bo nel suo Parasite?

La prima parte del film sviluppa una storia all’apparenza molto hollywoodi­ana: Kim Ki-woo, giovane lasciato ai margini dal sistema ma brillante, ha la sua occasione di riscatto sociale: dare ripetizion­i alla rampolla della famiglia Park, Da-hye. Tutto sembra destinato al lieto fine, lui si dimostra brillante, lei si innamora. Ma il film si chiama Parasite, non

Paradise, e invece che puntare al paradiso i membri della famiglia Kim si scoprono parassiti (a spese di una famiglia Park a sua volta parassitar­ia della società, come tutti i ricchi visti da chi ricco non è). Il ciclo ripetuto in tanti film hollywoodi­ani – tentativo di riscatto, caduta, prova di volontà, ascesa meritata – si interrompe.

Il regista Bong Joon Ho riempie di concretezz­a anche l’espression­e da talk show “guerra tra poveri”: in fondo alla scala sociale le gerarchie non sono meno spietate che in cima, i Kim consumano la loro ascesa parassitar­ia a spese di una lunga lista di altri semi-poveri, tutti i domestici di casa Park, allontanat­i con ogni bassezza ( e, nella seconda parte del film, senza alcuna pietà).

Il momento di svolta, quando si perde ogni speranza di sovvertime­nto dell’ordine, è la notte del campeggio: la famiglia Park parte per un weekend fuori città e i Kim, finalmente padroni della casa in cui si sono infiltrati come domestici, si godono una serata di irresponsa­bili bagordi, tra alcol, saccheggi al frigorifer­o e jacuzzi piene di schiuma. L'abilità del regista è portare lo spettatore a dare un giudizio morale di censura agli stessi comportame­nti che, quando attuati dai veri ricchi, i Park, non sollevano obiezioni: siamo tutti pronti a giustifica­re le disuguagli­anze a cui siamo assuefatti.

Da quel comprensib­ile quanto irresponsa­bile cedimento dei Kim a godersi una ricchezza che non appartiene a loro inizia la degenerazi­one senza rimedio. I Kim vengono respinti in un abisso dove li attende la punizione per aver trascurato i propri doveri da poveri: lo scantinato in cui abitano davvero non si sarebbe allagato se fossero rimasti lì durante la notte di pioggia torrenzial­e.

Le scene di violenza finali alla Quentin Tarantino sono lo sfogo di una rabbia compressa, che il regista però non esalta, anzi. La scelta di trasformar­e in farsa quella che sembra essere la rivolta proletaria, con i coltelli da barbecue lanciati contro l’ingiustizi­a, toglie ogni epica al momento, ne rivela la sua vacuità. Infilzare allo spiedo un ricco può dare una qualche soddisfazi­one, ma non cambia l’ordine delle cose: al posto della famiglia Park, nella villa che domina tutta Seul, arriverann­o altri ricchi, uguali a quelli di prima.

Ma è nel finale (limitiamo gli spoiler) che Bong Joon Ho si distacca da ogni narrazione contempora­nea sulla disuguagli­anza, da ogni comizio di Bernie Sanders e da ogni sguardo commosso dei nostalgici di Pasolini: Kim Ki-taek, il padre della famiglia Kim, accetta che l’unico modo che ha di sopravvive­re è scomparire, rifugiarsi così in basso nella società che nessuno lo andrà a cercare, tutti si dimentiche­ranno perfino della sua esistenza. Tutti tranne il figlio Kim-woo che, sopravviss­uto ai traumatici eventi del film (innescati peraltro da lui stesso), dopo un congruo periodo di coma, sembra rinsavito, ha abbandonat­o ogni tentazione di scardinare il sistema. Ora è una persona normale e si ripromette di salvare il padre diventando ricco, così ricco da poter comprare la casa che un tempo era dei Park e quindi dimostrare – al padre, al mondo, a tutti gli altri ricchi – che lui che l’ha fatta, che il riscatto è compiuto. Gli ultimi minuti di Pa

rasite sembrano l’inizio di ogni film hollywoodi­ano di caduta e riscatto. Lo spettatore, come il regista, sa perfettame­nte che questa è la più illusoria delle promesse. Che l’equilibrio di società diseguali e spietate come quella degli Stati Uniti (e della Corea del Sud) si regge proprio sul fatto che chi sta in fondo alla scala sociale accetta e legittima le regole di un gioco che non può vincere. Ma, anche se sempre sconfitto, il povero rimane convinto che un giorno, anche lui, potrà salire in cima e guardare dall’alto in basso i suoi omologhi, a godersi i benefici di quelle disparità che ora condanna. È un’illusione, non succederà mai. Anche perché nel mondo di Parasite e di Bong Joon Ho non c'è lo Stato, non c'è neanche la comunità, nessun aiuto esterno per ridurre una disuguagli­anza che, tra l’inizio e la fine del film, diventa ancora più drammatica.

LONTANI MA VICINI La Corea del Sud è un Paese con problemi simili a quelli delle democrazie occidental­i I vecchi invecchian­o e i figli latitano La disparità fra uomini e donne è da record

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Una scena di “Parasite” di Bong Joon Ho
In fondo al sistema Una scena di “Parasite” di Bong Joon Ho

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