Il Piano per il Sud (un altro) “scippato” di 840 miliardi
Ieri in Calabria Conte & C. presentano un programma da 123 miliardi totali: soldi vecchi, la novità è la promessa che al Mezzogiorno andrà davvero il 34% degli investimenti statali
L’ultimo era stato quello di Matteo Renzi nel 2015, ieri in Calabria Giuseppe Conte ha presentato quello del suo governo: è l’ennesimo grande Piano per il Sud, questo con l’orizzonte al 2030 si candida a spendere nelle otto regioni meridionali 123 miliardi. Ovviamente il piano è benvenuto e contiene molte ottime cose, alcune raccolte dalle proposte dell'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile: d’altra parte il ministro del Sud e della Coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, è l’ex vicepresidente dello Svimez e conosce bene la canzone dei bisogni del Mezzogiorno. Di Piani per il Sud, però, è piena la storia d’Italia fin dagli anni 70 dell’Ottocento, allorché il termine “questione meridionale” fece la sua apparizione nel dibattito pubblico per non lasciarlo mai più.
I PROGETTI di Conte e soci, come detto, sono ambiziosi non solo in termini di soldi (33 miliardi per lavori infrastrutturali in accordo con Anas e Rfi da far partire entro il 2021), ma anche di riorganizzazione della macchina pubblica che deve accompagnare il nuovo sviluppo del Sud: dal contrasto alla dispersione scolastica al tempo pieno (e simbolicamente ieri c’era anche la ministra Lucia Azzolina), dall’assunzione di 10 mila giovani con competenze di alto livello nella Pubblica amministrazione a una macchina burocratica più vicina ai territori che aiuti a progettare e realizzare interventi non a pioggia, dalla cosiddetta “alleanza dei talenti” con chi il Mezzogiorno l’ha lasciato alla transizione ecologica (a partire da Taranto, ovviamente), dagli aiuti alle imprese per l’accesso al credito agli incentivi per la loro crescita dimensionale.
Si vedrà al 2030 se le buone intenzioni saranno buone pratiche, però va sottolineata una novità rilevante che potrà essere verificata a breve: il governo s’impegna entro il 31 marzo a varare il Dpcm che renda operativa la regola per cui il 34% delle spese in conto capitale – percentuale che corrisponde a quella dei residenti nel Meridione rispetto al totale nazionale – vada appunto al Sud. Se questa previsione, varata ai tempi del governo Gentiloni e mai applicata, diventasse realtà sarebbe quasi una rivoluzione: di soldi
“nuovi” infatti nel piano Conte non ce ne sono, garantisce la formuletta “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica”, ma rivedere le percentuali di spesa porterebbe al Mezzogiorno nel triennio 2020-2022 oltre cinque miliardi e mezzo di investimenti in più, da aggiungere ai due miliardi stanziati nella legge di Bilancio. Se non altro, un’inversione di tendenza.
E qui forse va chiarita una cosa rispetto alla vulgata secondo cui il Sud succhia spesa pubblica al resto del Paese: non è così, semmai il contrario. Il Mezzogiorno va risarcito della disattenzione (dolosa) dei governi nazionali e, non bastassero i doveri di solidarietà che sarebbero ovvi in una comunità, proprio per tutelare l’interesse dell’intero Paese.
UN PO’ DI NUMERI: se gli investimenti pubblici in Italia nel decennio 2008-2018 si sono ridotti di circa un terzo in media, al Sud siamo oltre il 50% (da 21 a 10,3 miliardi); si sono ridotti pure gli abitanti visto che dal 2002 al 2017 due milioni di residenti hanno lasciato le otto regioni meridionali (la metà avevano meno di 35 anni, circa 240 mila erano laureati).
Quel che deve far riflettere, senza per questo negare problemi antichi e colpe “autoctone”, è la disparità di trattamento tra Centro-Nord e Sud. I numeri che seguono sono contenuti nel “R a pp o rt o 2020” che Eurispes ha presentato qualche giorno fa. Prendendo un indicatore oggettivo come la spesa pubblica pro capite si scopre che nel Centro- Nord lo Stato tra il 2000 e il 2017 ha speso in media 3.482 euro a cittadino in più rispetto al Sud (sono, ad esempio, 21.750 euro in Lombardia e 9.761 in Calabria, fanalino di coda): applicando la “regola del 34%” – che comunque non varrà per la spesa corrente – scopriremmo che in quel lasso di tempo il Mezzogiorno ha perso 46,7 miliardi di euro l’anno, 840 miliardi in 18 anni.
Interesse nazionale
Il Nord vende le sue merci nel Meridione: 1 euro pubblico speso lì, ne porta 0,4 agli altri
PERCHÉ È UN DATO che dovrebbe preoccupare tutti, anche la ricca Lombardia? Perché il Mezzogiorno è ancora il maggior mercato di sbocco di beni e servizi prodotti al Nord. Com’è noto, e come ribadisce Eurispes citando uno studio
di Banca d’Italia e Unicredit del 2010, il modello economico italiano è rimasto uguale dall’Unità in poi: il Nord produce e il Sud compra. Il deficit commerciale delle regioni meridionali rispetto al Nord è tutto in abbondante doppia cifra e viceversa (anche se ora le cifre sono probabilmente diverse, nel 2010 la Lombardia “es p or t av a ” al Sud il 21,3% della sua produzione). Quel pezzo di trasferimenti da Roma al Mezzogiorno che finisce così spesso sulle pagine dei giornali nella categoria “sprechi” – che oggi torna di moda con l’autonomia “secessionista” chiesta da Luca Zaia, Attilio Fontana e, in parte, Stefano Bonaccini – serve, insomma, anche a far girare l’economia delle aree più ricche del Paese. Lo stesso governo nel suo Piano stima un effetto “moltiplicatore” di 40 centesimi al Nord per ogni euro di investimenti fatto al Sud.
E GIÀ CHE SI PARLAdi autonomia sarà il caso di ricordare a quali paradossi conduce il criterio dei “fabbisogni standard” sponsorizzato dai patrioti ex padani. Con questo stratagemma, per dire, a Reggio Emilia sono riconosciuti 139 milioni di euro, a Reggio Calabria 104 nonostante abbia 9 mila abitanti in più.