SPAZZACORROTTI, SBAGLIA LA CORTE
La Corte costituzionale, con sentenza del 12 febbraio, ha accolto l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata in ordine all’applicazione dell’art. 1 comma 6, L. n° 3/2019 (c.d. “spazza corrotti”) – che ha previsto il divieto di misure alternative al carcere e di altri benefici per i condannati per gravi reati contro la P.A. (corruzione, concussione, ecc.) – in relazione a reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge suddetta avvenuta il 31.01.2019.
AFFERMA la Consulta nel suo comunicato stampa: “L’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’art. 25, II comma della Costituzione”. La sentenza non è in alcun modo condivisibile. Già è discutibile che l’art. 25 della Carta integri il “principio di legalità delle pene” poiché tale norma – con lo statuire che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”– non opera alcun riferimento alle “p en e” cui fa, invece, esplicito richiamo la legislazione penale ordinaria che, all’art. 1 del cod. pen., sancisce: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”. È questa la norma che esprime il divieto di punire un qualsiasi fatto che, al momento della sua commissione, non sia espressamente preveduto come reato dalla legge e con pene che non siano dalla legge espressamente stabilite (ivi compreso un successivo inasprimento della entità della pena). In ogni caso, ove si volesse ritenere – come osservano la dottrina ( Fiandaca- Musco), e alcune decisioni della Consulta – che il principio di legalità abbia in Costituzione (art. 25, II comma) e nella legislazione penale ordinaria (art. 1 Codice penale) la medesima estensione, non vi è dubbio che tale principio implica una stretta riserva di legge che postula la specificazione del fatto previsto come reato e l’indicazione della pena (ivi compresa la specie e l’entità della stessa) ma non riguarda, e non può riguardare, le mere modalità di espiazione di una pena rimasta inalterata nella sua quantificazione normativa.
Tale corretto principio giuridico–oggi erroneamente travolto dalla Consulta–è stato ininterrottamente affermato, anche a Sezioni Unite, dalla Corte di Cassazione secondo cui “le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e, pertanto, (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio tempus regit actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 cod. pen. e dall’art. 25 Cost.” (Cass. S.U. n° 24561/2006 cui, tra le tante, add es ez.I,n° 33890/2009; id. sent. 1135/ 2009; i d . n ° 46924/ 2009; id. n° 11580/2013) . Ancora più significativa è la successiva decisione della Corte secondo cui “le disposizioni legislative che individuano i delitti ostativi ai benefici penitenziari ed alle misure alternative alla detenzione, in quanto attinenti alle sole modalità di esecuzione della pena, sono di immediata applicazione anche ai fatti pregressi e alle condanne pregresse e non sono quindi regolate dal principio di irretroattività ”( Cass.sez.I n° 31215/2015). Pertanto, la nuova norma deve ritenersi applicabile alla espiazione della pena derivante da precedenti condanne irrevocabili e, a maggior ragione, alla esecuzione di pena conseguente a sentenze che, pur riguardando fatti anteriori, sono intervenute dopo l’ entrata invigore della“spazza corrotti ”– (quale è il caso, tra gli altri, di Formigoni) – perché, in tal caso, l’evento processuale da cui consegue l’effetto dell’esecuzione della pena – rimasta inalterata nella sua quantificazione normativa – è successivo alla legge e le concrete conseguenti, modalità di espiazione sono soggette alla norma in quel momento vigente.
FORSE LE RAGIONI della decisione traspaiono da una lunga intervista concessa dalla presidente della Corte Marta Cartabia a Repubblica (16.02) ove campeggia, in prima pagina, il titolo “Serve una Giustizia dal volto umano”. Ora, premesso che non esiste in alcuna parte del nostro ordinamento giuridico che il principio che la “Giustizia deve sempre avere un volto umano”, si osserva chela“Giustizia” deve essere “sempre” e soltanto “giusta” e tale non sembra se è vero che la sentenza in questione ha aperto inopinatamente le porte del carcere ai già pochi “colletti bianchi” condannati per reati corruttivi. Aggiunge ancora la Cartabia che è stata adottata una sentenza “interpretativa di accoglimento” che “introduce una importante innovazione”. Sarebbe opportuno che la Consulta lasci ai giudici il compito di “interpretare” le norme (che a essi appartiene in via esclusiva) e al legislatore il compito di “innovare” l’ordinamento giuridico (che a esso appartiene in via esclusiva).