Che vita sarebbe senza il dolore? Il viaggio di Lewis nella valle del male
Adelphi riedita il saggio scritto dopo la morte della moglie, necessario come l’amore
C’è
forse solo una cosa, nella vita, più presente del dolore: l’acqua che forma il nostro corpo. Mentre di lei, però, sappiamo quasi tutto, del dolore sappiamo quasi nulla. Dopo morte, è la parola più odiata. Rimossa più che taciuta. Comprensibile, certo: a chi piace soffrire? Ogni volta che il dolore ci attanaglia, desideriamo solo una cosa: che passi. In fretta. E, così, non ci chiediamo mai che senso abbia né se e a cosa serva, qualcosa che occupa una parte tanto rilevante della nostra esistenza. Diario di un dolore – Adelphi, nell’intensa traduzione di Anna Ravano – è una lettura indispensabile. Per le domande che C. S. Lewis pone, più ancora che per le risposte, tutt’altro che banali, che suggerisce. Pagine preziose. Per chi conosce e anche per chi non conosce il dolore. Piaccia o no, una vita senza dolore – ammesso che esista – non sarebbe vita. È il dolore, infatti, la spinta più potente al manifestarsi della coscienza. È lui che ci costringe a porci le domande più importanti: significato, valore, destinazione finale del viaggio dell’esistere. Lewis non fugge il dolore per la morte dell’amata moglie Helen. Lo guarda negli occhi, senza abbassare lo sguardo. Lo ascolta, senza interromperlo. E riflette. Senza infingimenti, retorica, compiacimento, autocommiserazione. Il suo è un diario di viaggio senza tesi né meta. Del resto, “l’afflizione non è uno stato bensì un processo”: una lunga valle tortuosa, nella quale ogni curva può rivelare un paesaggio completamente nuovo. Pagine forti, sul filo teso tra sofferenza e verità, per evitare che la prima offuschi la seconda e fare in modo che la seconda aiuti a cogliere il senso della prima. Dolore come paura, angoscia, pigrizia, imbarazzo, isolamento, vergogna, infelicità – un’infelicità che non è semplicemente soffrire ma “pensare continuamente al proprio soffrire” – sospensione, tensione, frustrazione.
CHI È DIO? Un “Sadico Cosmico”? Un “idiota malevolo”? “Un pagliaccio che ti strappa di mano la scodella di minestra e un attimo dopo te ne dà un’altra colma della stessa minestra?” E dov’è? Come mai quando il nostro bisogno di lui è disperato troviamo solo “una porta sbattuta in faccia”, “il rumore di un doppio chiavistello all’interno” e “poi, il silenzio”? Che la sua casa sia vuota perché non è mai stata abitata? Non è successa, for
Il libro
se, la stessa cosa al Cristo del “Perché mi hai abbandonato?”. Ma se Dio non esiste, perché ci sembra così presente quando non lo cerchiamo? E se fosse un semplice surrogato dell’amore, non avremmo perso interesse per lui da un pezzo? E se il nostro castello di certezze è crollato al primo colpo, non sarà perché era un castello di carte? Forse Lui “ha sempre saputo che il mio tempio era un castello di carte. L’unico modo per far sì che lo capissi anch’io era buttarlo giù”. “Se H. non è – scrive Lewis – allora non è mai stata”.
Aveva ragione allora, per quel poco che ne capisco, Emanuele Severino a sostenere che il nulla non può diventare qualcosa e poi tornare a essere nulla. Il che postula l’eternità di ciò che è. È per questo che, nel silenzio che lasciano, certe voci risuonano ancora più forti?