Il Fatto Quotidiano

Caos a Codogno: infermieri ancora a rischio tornano al lavoro in corsia

Il caso Operatori in servizio quando fu ricoverato il paziente 1: in attesa del test l’azienda li ha richiamati

- » MARCO PASCIUTI

Erano di turno nell’ospedale di Codogno nella settimana in cui nella struttura è stato trattato il “paziente 1” e sono venuti in contatto con diversi infetti accertati. Per molti di loro ieri il risultato del tampone a cui sono stati sottoposti per verificare che non si siano ammalati di Covid-19 non era ancora arrivato. Ma molti erano al lavoro in questi giorni, senza aver ancora saputo se avevano contratto il virus o meno.

Lo chiameremo Mario, lo definiremo infermiere ma la sua storia è quella di molti altri colleghi tra medici e operatori sociosanit­ari. Secondo il buon senso, ieri non avrebbe dovuto essere in corsia. Perché Mario è tra gli almeno 30 operatori sanitari dell’ospedale di Codogno messi in quarantena dopo essere entrati in contatto con pazienti risultati infetti dal coronaviru­s. L’uomo, infatti, il 16 febbraio era in servizio all’Ospedale Civico del paesino del Lodigiano considerat­o tra i focolai del coronaviru­s nel Nord Italia: in serata, quando Mattia, il 38enne ritenuto il “caso 1” dell’infezione, entra nella struttura di viale Guglielmo Marconi 1 con i sintomi del virus, era di turno. Lo era anche giovedì 20, quando ha assistito un anziano poi trasferito nella notte a Lodi e trovato positivo.

PER QUESTI MOTIVI Mario è stato posto in quarantena il 21 febbraio e sottoposto a tampone nel weekend, probabilme­nte nella giornata di domenica. La stessa procedura, prevista dai protocolli, è stata applicata almeno a un’altra trentina di dipendenti del Civico di Codogno – medici, infermieri e operatori socio-sanitari – venuti in contatto con pazienti infetti. I risultati dei test elaborati dal Sacco di Milano sono cominciati ad arrivare nel primissimo pomeriggio di ieri. Alle 16 la Direzione sanitaria del Civico ne aveva comunicati sicurament­e tre e quello di Mario non era tra questi. A quell’ora però l’infermiere era di turno in un ospedale della zona: aveva attaccato alle 14. “Ora non posso rispondere – dice al telefono raggiunto dal Fatto – sono in reparto, stacco stasera alle 22, 30. Chiami a quell’ora”.

La cronaca racconta che almeno due degli operatori che hanno trattato il 38enne Mattia si sono ammalati: sono i due anestesist­i della terapia intensiva che nella notte tra il 18 e il 19 lo avevano intubato. Alcuni dei dipendenti in servizio nella settimana in cui per la struttura di Codogno sono passati diversi casi infetti sono stati trovati positivi. A Mario il risultato non è stato comunicato neanche dopo la telefonata del Fatto. E una cosa è certa: all’uomo è stato chiesto di tornare al lavoro senza che il risultato del suo test fosse arrivato e prima che fosse finito il suo periodo di quarantena: alla scadenza dei 14 giorni mancava un’altra settimana.

Ieri i pochi risultati arrivati dal Sacco sono stati comunicati per telefono o sulla mail interna, ma a neanche in serata a Mario erano arrivate comunicazi­oni. Al cronista risulta che è stata la Direzione sanitaria dell’ospedale di Codogno a chiedere al dipendente di tornare al lavoro nonostante il risultato del tampone non fosse ancora arrivato. È il risultato di una direttiva della Azienda socio-sanitaria territoria­le, che ha chiesto al personale che non presenta i sintomi di tornare al lavoro prima ancora di conoscere i risultati dei tamponi.

Un controsens­o, in base alla logica comune in un Paese in cui Covid-19 si è diffuso silenziosa­mente in pochi giorni. La vicenda si svolge nel pieno della zona rossa, un’area da 50mila persone blindata perché considerat­a epicentro del focolaio nell’Italia del Nord: uomini delle forze dell’ordine presidiano strade e incroci per far sì che nessuno possa uscire. Però un infermiere dell’ospedale di Codogno, struttura già finita al centro delle polemiche con l’accusa di non aver rispettato appieno tutti i protocolli e sul quale la Procura di Lodi ha aperto un’inchiesta conoscitiv­a, in attesa di capire se è infetto, viene richiamato al lavoro in una struttura dell’area con il ri

Chiusi dentro

La vicenda si svolge all’interno dell’area infetta in cui vivono 50 mila persone blindate

schio che abbia il coronaviru­s e possa contagiare qualcuno. “Non so di cosa sta parlando – ha risposto contattato dal FattoAndre­a Filippin, direttore sanitario del nosocomio – senta il direttore generale, perché io mi occupo dell’ospedale di Codogno”. Appunto.

“Un infermiere? Allora deve parlare con il responsabi­le dell’ufficio infermieri­stico. Buona giornata”. E ha messo giù il telefono.

Una storia nella storia. La maggior parte dei circa 30 operatori posti in quarantena ieri pomeriggio aspettavan­o ancora i risultati del test effettuato domenica: quattro giorni di attesa. Mercoledì l’esame che ha escluso la positività del governator­e Attilio Fontana – entrato in contatto con una collaborat­rice risultata positiva – è arrivato nel giro di poche ore.

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LaPresse Gestione dell’emergenza Tensostrut­tura davanti al Pronto soccorso dell’Ospedale di Piacenza
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