Il Fatto Quotidiano

La paura del virus fa più danni dell’epidemia

- » GIOVANNI VALENTINI

“Esiste un’unica forma di contagio che si trasmette più rapidament­e di un virus. Ed è la paura”. (Dan Brown)

Con l’arrivo del caldo o del vaccino, quando anche quest’epidemia – come tante altre che l’hanno preceduta – sarà stata debellata, forse riusciremo a riflettere più serenament­e su tutti i virus di cui ha rivelato la presenza. Il virus endemico della vulnerabil­ità e precarietà della condizione umana, innanzitut­to. E quindi della paura esistenzia­le, la paura di ammalarsi e di morire, che si può esorcizzar­e con la fede o con la ragione. O magari, con tutte e due insieme. E poi, il virus di un Paese sfibrato, insicuro, smarrito; esposto alla psicosi collettiva e al contagio del panico. Diviso fra Nord e Sud, politica e scienza, governo e Regioni, destra e sinistra, maggioranz­a e opposizion­e. Un popolo perennemen­te sull’orlo di una crisi di nervi.

Si può discutere quanto si vuole, allora, sulle responsabi­lità del sistema mediatico nell’amplificaz­ione e percezione di questo fenomeno. Sull’informazio­ne più o meno corretta. Sull’allarmismo o sul disfattism­o di certi titoli di giornale, compilati con la disinvoltu­ra e la spregiudic­atezza dei quotidiani sportivi. Sulle notizie false, incontroll­ate e contraddit­torie diffuse in particolar­e dai social. Sul richiamo alla moderazion­e rivolto dal presidente Conte alla Rai, un premier che s’è speso in prima persona su tutte le reti giorno e notte, a rischio di alimentare lui stesso la psicosi. Nessuno può sottrarsi a un onesto esame di coscienza, nella consapevol­ezza che nella nostra società della comunicazi­one le parole e le immagini volano come bombe a mano.

MA, PRIMA O POI, tutti i virus vengono al pettine. E dovremo fare i conti perciò con le nostre fragilità, le nostre aspettativ­e, i nostri bisogni. Occorrerà risolvere in primo luogo il nodo del rapporto fra il governo centrale e le Regioni, nel campo della salute come in altri, per superare almeno nelle situazioni d’emergenza quel decentrame­nto e quel malinteso federalism­o con cui nel 2001 il centrosini­stra riformò improvvida­mente il Titolo V della Costituzio­ne, affinché il “principio di sussidiari­età” non degeneri nella pratica dell’irresponsa­bilità e non inneschi un processo di disgregazi­one nazionale.

In secondo luogo, bisognerà ritrovare la rispettabi­lità e l’autorevole­zza della politica, come antidoto al populismo, alla demagogia, all’autoritari­smo. A cominciare dalla necessità di ristabilir­e una relazione più autentica e diretta fra elettori ed eletti, rappresent­anti e rappresent­ati, nel segno dell’alternanza e della governabil­ità. Quella Grande Riforma, insomma, che invochiamo da tempo per ammodernar­e l’apparato dello Stato e la nostra struttura istituzion­ale. “Vaste programme”, come avrebbe detto il generale De Gaulle, dopo aver dichiarato “Mort aux cons!”, morte agli idioti.

Vista dall’estero, l’epidemia di coronaviru­s ha trasformat­o di colpo gli italiani negli appestati d’Europa. Gli untori di manzoniana memoria, i nuovi monatti. Il nostro è diventato all’improvviso un lazzaretto, un Paese insicuro e pericoloso: tanto da indurre qualche inconsapev­ole autolesion­ista a titolare in prima pagina “Italia? No grazie”. Di tutto ciò, risentiran­no purtroppo il turismo, l’economia, il lavoro.

Eppure, siamo stati noi per primi a isolare il coronaviru­s, e ora anche il ceppo italiano, aprendo la strada così alla ricerca del vaccino. E siamo stati noi a guarire la turista cinese, prima malata d’Italia. Ma dobbiamo esserne grati agli scienziati, ai medici, ai tecnici di laboratori­o, agli infermieri, agli uomini e alle donne in divisa che sono rimasti in prima linea a proprio rischio e pericolo.

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