La paura del virus fa più danni dell’epidemia
“Esiste un’unica forma di contagio che si trasmette più rapidamente di un virus. Ed è la paura”. (Dan Brown)
Con l’arrivo del caldo o del vaccino, quando anche quest’epidemia – come tante altre che l’hanno preceduta – sarà stata debellata, forse riusciremo a riflettere più serenamente su tutti i virus di cui ha rivelato la presenza. Il virus endemico della vulnerabilità e precarietà della condizione umana, innanzitutto. E quindi della paura esistenziale, la paura di ammalarsi e di morire, che si può esorcizzare con la fede o con la ragione. O magari, con tutte e due insieme. E poi, il virus di un Paese sfibrato, insicuro, smarrito; esposto alla psicosi collettiva e al contagio del panico. Diviso fra Nord e Sud, politica e scienza, governo e Regioni, destra e sinistra, maggioranza e opposizione. Un popolo perennemente sull’orlo di una crisi di nervi.
Si può discutere quanto si vuole, allora, sulle responsabilità del sistema mediatico nell’amplificazione e percezione di questo fenomeno. Sull’informazione più o meno corretta. Sull’allarmismo o sul disfattismo di certi titoli di giornale, compilati con la disinvoltura e la spregiudicatezza dei quotidiani sportivi. Sulle notizie false, incontrollate e contraddittorie diffuse in particolare dai social. Sul richiamo alla moderazione rivolto dal presidente Conte alla Rai, un premier che s’è speso in prima persona su tutte le reti giorno e notte, a rischio di alimentare lui stesso la psicosi. Nessuno può sottrarsi a un onesto esame di coscienza, nella consapevolezza che nella nostra società della comunicazione le parole e le immagini volano come bombe a mano.
MA, PRIMA O POI, tutti i virus vengono al pettine. E dovremo fare i conti perciò con le nostre fragilità, le nostre aspettative, i nostri bisogni. Occorrerà risolvere in primo luogo il nodo del rapporto fra il governo centrale e le Regioni, nel campo della salute come in altri, per superare almeno nelle situazioni d’emergenza quel decentramento e quel malinteso federalismo con cui nel 2001 il centrosinistra riformò improvvidamente il Titolo V della Costituzione, affinché il “principio di sussidiarietà” non degeneri nella pratica dell’irresponsabilità e non inneschi un processo di disgregazione nazionale.
In secondo luogo, bisognerà ritrovare la rispettabilità e l’autorevolezza della politica, come antidoto al populismo, alla demagogia, all’autoritarismo. A cominciare dalla necessità di ristabilire una relazione più autentica e diretta fra elettori ed eletti, rappresentanti e rappresentati, nel segno dell’alternanza e della governabilità. Quella Grande Riforma, insomma, che invochiamo da tempo per ammodernare l’apparato dello Stato e la nostra struttura istituzionale. “Vaste programme”, come avrebbe detto il generale De Gaulle, dopo aver dichiarato “Mort aux cons!”, morte agli idioti.
Vista dall’estero, l’epidemia di coronavirus ha trasformato di colpo gli italiani negli appestati d’Europa. Gli untori di manzoniana memoria, i nuovi monatti. Il nostro è diventato all’improvviso un lazzaretto, un Paese insicuro e pericoloso: tanto da indurre qualche inconsapevole autolesionista a titolare in prima pagina “Italia? No grazie”. Di tutto ciò, risentiranno purtroppo il turismo, l’economia, il lavoro.
Eppure, siamo stati noi per primi a isolare il coronavirus, e ora anche il ceppo italiano, aprendo la strada così alla ricerca del vaccino. E siamo stati noi a guarire la turista cinese, prima malata d’Italia. Ma dobbiamo esserne grati agli scienziati, ai medici, ai tecnici di laboratorio, agli infermieri, agli uomini e alle donne in divisa che sono rimasti in prima linea a proprio rischio e pericolo.