QUEI “POVERI UNTORELLI” 2.0
Ora che siamo gli untori d’Europa, conviene a giovani – come consiglia qualche saggio Preside – e a vecchi ridurci con il Boccaccio “in luoghi in contado” per distrarci dal contagio e meglio comprenderlo.
Non tanto per vagare nella lunga storia della “morte epidemica” (Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Camus, Saramago tra i più noti), ma per osservare quali comportamenti essa secerna nella specie umana: sembra, ad esempio, che sia largamente cresciuta la solidarietà, rispetto ai tempi di Tucidide, che osserva descrivendo la peste di Atene: “Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per la mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie; se al contrario si accostavano alle persone, morivano per il contagio, e in particolar modo quelli che cercavano di agire con generosità”. I don Ferrante manzoniani pure sono diminuiti: “Al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. […] His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”( I Promessi Sposi, cap. XXXVII).
Sembrano invece in aumento gli eroi che hanno attraversato impavidi palestre, nevi, jet lag, che hanno difeso il mito produttivo della Cina e vogliono al più presto tornarci; a costoro è difficile – non ne han tempo – far leggere Camus, spiegare che “salute” è bene men duraturo che saggezza, che l’ignoranza è terribilmente contagiosa: “Il male che è nel mondo discende quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può procurare altrettanti guasti che la cattiveria, se essa non è illuminata. Gli uomini sono in genere più buoni che cattivi, ma non è qui il problema; essi non sanno, chi più chi meno: ed è ciò che si chiama virtù o vizio, il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede tutto sapere”( La peste). Certo si misura, in queste settimane, lo iato incolmabile – prodotto dalle società del “consumo ubiquo”– che c’è oggi tra l’individuo, un essere ormai senza “geografia propria”, e le nazioni, statiche, che arrancano per chiudere frontiere permeabili e invarcabili solo per chi appartenga alla schiera dei profughi, i soli davanti ai quali possano erigersi barriere. Eppure, curiosamente, il vocabolario che usiamo per il contagio è ancora totalmente geografico, da gioco delle celebri battaglie – mentre tutti schizzano dappertutto – con accerchiamenti, valli, contenimenti; mentre esso è più strisciante – e sempre più prescinde da focolai riconoscibili – tanto che meglio lo si descrive con il visionario Cecità di Saramago: “Ed era arrivato alla conclusione, dopo cinque minuti a occhi chiusi, che la cecità, senza alcun dubbio una terribile disgrazia, avrebbe comunque potuto essere relativamente sopportabile se la vittima di una simile sventura avesse mantenuto un ricordo sufficiente, non solo dei colori, ma anche delle forme e dei piani, delle superfici e dei contorni, supponendo, è chiaro, che la suddetta cecità non fosse di nascita. Era arrivato persino al punto di pensare che il buio in cui i ciechi vivevano fosse in definitiva soltanto la semplice assenza di luce, che ciò che chiamiamo cecità fosse qualcosa che si limitava a coprire l’apparenza degli esseri e delle cose, lasciandoli intatti al di là di quel velo nero. Adesso, però, si ritrovava immerso in un biancore talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili”.
Non siamo, bene inteso, a questo punto: ma è bene immaginare i comportamenti di una società ove i contagiati fossero più numerosi di quelli reputati sani: la scissura tra “intatti” e malati cadrebbe, dovrebbero immaginarsi tante forme intermedie di ausilio “impuro”, uscendo dall’improprio affanno di isolare l’untore. Queste accelerazioni di contaminazioni reciproche mostrano bene che l’ultima forma dell’utopia del “falansterio” è proprio il “lazzaretto” del corpo malato del mondo e della natura che ci avvolge. Il groviglio infausto delle megalopoli che abitiamo è stato ben descritto da Calvino nelleCittà invisibili, in quella Leonia che è il nostro presente: “Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé le montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano”.
L’epidemia di Coronavirus non può essere disgiunta da altre epidemie, solo perché queste ultime sono (per ora) circoscritte tra i reietti: la mancanza d’acqua o la pozzanghera infetta; né, per converso, la caccia al rifugio sarà mai sicura perché, appena trovato, arriverà – anzi è già arrivato – quell’ “altro me stesso” più veloce, avido di “paradisi artificiali”. Pochi sono gli aggiramenti, a parte quello, tanto squisitamente italico, dell’ironia: “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male” (Eduardo De Filippo). La prima cura, forse, non è quella di cercare le “radici del male”(su cui ha meditato Bronisaw Baczko in Job, mon ami; trad. it. Roma, Manifestolibri, 2000); bensì la fatica di assumere che il contagio non finirà presto, così da agire instancabili e rassegnati, fermi e privi di illusioni come i medici della Peste di Camus, nonché la maggior parte dei nostri medici: “E se si annunciava loro un buon risultato, davano a vedere d’interessarsi, ma accoglievano la notizia con quell’indifferenza distratta che si immagina propria dei combattenti delle grandi guerre, dediti soltanto a non cedere nel loro dovere quotidiano, non sperando più né nell’operazione decisiva né nel giorno dell’armistizio”. Ecco, il vero problema oggi – già segnalano i virologi più attenti come i sociologi meno incantatori – di fronte ai costanti “peggioramenti”, dal clima alle epidemie, è proprio di decidere quale consideriamo per noi essere la “tregua”.
I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano ITALO CALVINO