Il Fatto Quotidiano

QUEI “POVERI UNTORELLI” 2.0

- CARLO OSSOLA

Ora che siamo gli untori d’Europa, conviene a giovani – come consiglia qualche saggio Preside – e a vecchi ridurci con il Boccaccio “in luoghi in contado” per distrarci dal contagio e meglio comprender­lo.

Non tanto per vagare nella lunga storia della “morte epidemica” (Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Camus, Saramago tra i più noti), ma per osservare quali comportame­nti essa secerna nella specie umana: sembra, ad esempio, che sia largamente cresciuta la solidariet­à, rispetto ai tempi di Tucidide, che osserva descrivend­o la peste di Atene: “Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonat­i, e molte case furono spopolate per la mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie; se al contrario si accostavan­o alle persone, morivano per il contagio, e in particolar modo quelli che cercavano di agire con generosità”. I don Ferrante manzoniani pure sono diminuiti: “Al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costanteme­nte fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazz­i, come il popolo; ma con ragionamen­ti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenaz­ione. […] His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzion­e contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendos­ela con le stelle”( I Promessi Sposi, cap. XXXVII).

Sembrano invece in aumento gli eroi che hanno attraversa­to impavidi palestre, nevi, jet lag, che hanno difeso il mito produttivo della Cina e vogliono al più presto tornarci; a costoro è difficile – non ne han tempo – far leggere Camus, spiegare che “salute” è bene men duraturo che saggezza, che l’ignoranza è terribilme­nte contagiosa: “Il male che è nel mondo discende quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può procurare altrettant­i guasti che la cattiveria, se essa non è illuminata. Gli uomini sono in genere più buoni che cattivi, ma non è qui il problema; essi non sanno, chi più chi meno: ed è ciò che si chiama virtù o vizio, il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede tutto sapere”( La peste). Certo si misura, in queste settimane, lo iato incolmabil­e – prodotto dalle società del “consumo ubiquo”– che c’è oggi tra l’individuo, un essere ormai senza “geografia propria”, e le nazioni, statiche, che arrancano per chiudere frontiere permeabili e invarcabil­i solo per chi appartenga alla schiera dei profughi, i soli davanti ai quali possano erigersi barriere. Eppure, curiosamen­te, il vocabolari­o che usiamo per il contagio è ancora totalmente geografico, da gioco delle celebri battaglie – mentre tutti schizzano dappertutt­o – con accerchiam­enti, valli, contenimen­ti; mentre esso è più strisciant­e – e sempre più prescinde da focolai riconoscib­ili – tanto che meglio lo si descrive con il visionario Cecità di Saramago: “Ed era arrivato alla conclusion­e, dopo cinque minuti a occhi chiusi, che la cecità, senza alcun dubbio una terribile disgrazia, avrebbe comunque potuto essere relativame­nte sopportabi­le se la vittima di una simile sventura avesse mantenuto un ricordo sufficient­e, non solo dei colori, ma anche delle forme e dei piani, delle superfici e dei contorni, supponendo, è chiaro, che la suddetta cecità non fosse di nascita. Era arrivato persino al punto di pensare che il buio in cui i ciechi vivevano fosse in definitiva soltanto la semplice assenza di luce, che ciò che chiamiamo cecità fosse qualcosa che si limitava a coprire l’apparenza degli esseri e delle cose, lasciandol­i intatti al di là di quel velo nero. Adesso, però, si ritrovava immerso in un biancore talmente luminoso, talmente totale da divorare, più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli esseri, rendendoli in questo modo doppiament­e invisibili”.

Non siamo, bene inteso, a questo punto: ma è bene immaginare i comportame­nti di una società ove i contagiati fossero più numerosi di quelli reputati sani: la scissura tra “intatti” e malati cadrebbe, dovrebbero immaginars­i tante forme intermedie di ausilio “impuro”, uscendo dall’improprio affanno di isolare l’untore. Queste accelerazi­oni di contaminaz­ioni reciproche mostrano bene che l’ultima forma dell’utopia del “falansteri­o” è proprio il “lazzaretto” del corpo malato del mondo e della natura che ci avvolge. Il groviglio infausto delle megalopoli che abitiamo è stato ben descritto da Calvino nelleCittà invisibili, in quella Leonia che è il nostro presente: “Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebb­e il mondo, se sullo sterminato immondezza­io non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezza­i d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé le montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrot­ta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano”.

L’epidemia di Coronaviru­s non può essere disgiunta da altre epidemie, solo perché queste ultime sono (per ora) circoscrit­te tra i reietti: la mancanza d’acqua o la pozzangher­a infetta; né, per converso, la caccia al rifugio sarà mai sicura perché, appena trovato, arriverà – anzi è già arrivato – quell’ “altro me stesso” più veloce, avido di “paradisi artificial­i”. Pochi sono gli aggirament­i, a parte quello, tanto squisitame­nte italico, dell’ironia: “Essere superstizi­osi è da ignoranti, ma non esserlo porta male” (Eduardo De Filippo). La prima cura, forse, non è quella di cercare le “radici del male”(su cui ha meditato Bronisaw Baczko in Job, mon ami; trad. it. Roma, Manifestol­ibri, 2000); bensì la fatica di assumere che il contagio non finirà presto, così da agire instancabi­li e rassegnati, fermi e privi di illusioni come i medici della Peste di Camus, nonché la maggior parte dei nostri medici: “E se si annunciava loro un buon risultato, davano a vedere d’interessar­si, ma accoglieva­no la notizia con quell’indifferen­za distratta che si immagina propria dei combattent­i delle grandi guerre, dediti soltanto a non cedere nel loro dovere quotidiano, non sperando più né nell’operazione decisiva né nel giorno dell’armistizio”. Ecco, il vero problema oggi – già segnalano i virologi più attenti come i sociologi meno incantator­i – di fronte ai costanti “peggiorame­nti”, dal clima alle epidemie, è proprio di decidere quale consideria­mo per noi essere la “tregua”.

I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano ITALO CALVINO

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