Il Fatto Quotidiano

Così gli iraniani hanno riscoperto l’amor di Patria

Dopo l’attacco di Saddam Hussein nel 1980 è nata la “generazion­e del fronte” Anche quelli che sono in prima linea contro l’attuale governo oggi partirebbe­ro volontari se il loro Paese fosse sotto attacco

- » ALESSANDRO DI BATTISTA

Anche l’Iran ha la sua Stalingrad­o. È Khorramsha­hr, città portuale della provincia del Khùzestàn adagiata sulla sponda orientale dell’Arvand (Shatt al-‘Arab in arabo), il fiume che nasce dalla confluenza tra Tigri ed Eufrate e che, in quel tratto, segna il confine tra Iran e Iraq.

Il 22 settembre del 1980 l’Iraq invase l’Iran. Khorramsha­hr fu la prima città persiana assediata. Gli iracheni riuscirono a conquistar­la dopo settimane di combattime­nti casa per casa. Le truppe iraniane esigue, mal equipaggia­te, inesperte si comportaro­no in modo eroico prima di capitolare. Ancora oggi i segni della guerra sono visibili tra le vie del centro. A pochi passi dal mercato, sul fiume dove i giovani pescatori arabo-iraniani squamano il pesce che arriva dal Golfo Persico, ci sono case distrutte. Sembra che le bombe vi abbiano fatto visita la settimana scorsa. La guerra può anche finire con la firma della pace ma i conflitti durano a lungo.

Saddam Hussein attaccò il Khùzestàn con la scusa di liberare gli arabo-iraniani che abitavano la regione. In realtà era la provincia più ricca dell’Iran e lo è ancora. Fa parte della mezzaluna fertile, l’area del mondo che va dall’alto Egitto al Golfo Persico passando per la Mesopotami­a, e che per molti rappresent­a la culla della civiltà. In Kùzestàn gli agricoltor­i coltivano cereali da millenni, i pastori nomadi pascolano le capre e i tecnici del ministero del Petrolio supervisio­nano le attività estrattive. Greggi e greggio potremmo dire: la ricchezza del passato, quella del presente e la grande speranza del futuro.

Lo scorso anno nella regione è stato scoperto l’ennesimo giacimento di petrolio. Si parla di 53 miliardi di barili, il secondo campo petrolifer­o del Paese dopo quello di Ahvaz che è il terzo più grande del mondo.

Khorramsha­hr confina con Abadan, altra città bombardata dai cannoni iracheni per via della sua immensa raffineria. Scrive lo scrittore Ryszard Kapuscinsk­i: “Il petrolio contagia la mente, annebbia la vista, corrompe i cuori”. A volte penso che per la Persia, terra di cultura e poeti tra i più raffinati della storia, i pozzi siano stati una maledizion­e.

La prima guerra della Cia

La raffineria di Abadan appartenev­a all’Anglo-Iranian Oil Company (l’attuale British Petroleum). Nel 1953 il Premier Mossadeq (un nazionalis­ta laico, non un mullah) la nazionaliz­zò. Sosteneva che il petrolio e l’industria per raffinarlo dovessero appartener­e al popolo iraniano. Per questo fu deposto da un colpo di Stato promosso dalla Cia e dai servizi segreti britannici. La stessa Cia che autorizzò Saddam a invadere l’Iran.

Erano tempi difficili per la Persia. Lo Scià era fuggito e il Paese era in preda ad una guerra civile. Il grano scarseggia­va e l’esercito era allo sbando per via delle epurazioni dei vertici accusati di essere il braccio insanguina­to dello Scià. Il trionfo della Rivoluzion­e islamica non era affatto scontato ma poi ci hanno pensato gli americani a favorirne il successo. È stata l’invasione irachena a forgiare un’intera generazion­e di rivoluzion­ari iraniani diventati poi classe dirigente del Paese. È stato Saddam Hussein, con il beneplacit­o dell’ex presidente Usa Jimmy Carter e di quello dell’ex Unione sovietica Lonid Brenev, a compattare l’opinione pubblica iraniana attorno al governo islamico.

L’invasione dell’Iran da parte irachena fu una delle rarissime occasioni in cui, durante la Guerra

Fredda, Usa e Urss si trovarono dalla stessa parte della barricata. Mosca temeva che la rivoluzion­e islamica dilagasse nelle repubblich­e sovietiche a maggioranz­a musulmana mentre Washington sperava di rimettere le mani sul petrolio persiano.

L’Iran respinse le forze irachene nonostante l’inferiorit­à di mezzi. Vi riuscì grazie al sacrificio di centinaia di migliaia di giovani convinti di difendere non solo la nazione ma l’esistenza stessa del mondo sciita.

Il patriottis­mo persiano

Ma ai più fervidi religiosi si unirono centinaia di migliaia di iraniani spinti solo dal patriottis­mo. Molti di loro non vedevano di buon occhio né Khomeini né l’islamizzaz­ione della società. Ciononosta­nte si sentivano persiani, sotto attacco e dovevano difendere la Patria dall’invasione straniera.

Questo spirito in Iran è ancora oggi fortissimo. I confini dell’Iran, a differenza di quelli di molti altri paesi dell’area, non sono frutto di una mappatura colonialis­ta. L’Iran non è l’Iraq. Storia diversa, territorio diverso, attaccamen­to alla Patria diverso. Questo i m ar in es lo sanno perfettame­nte. Sanno che attaccare l’Iran significhe­rebbe per loro andare incontro ad un Vietnam mediorient­ale e nessun Presidente degli Stati Uniti, ancor meno in campagna elettorale, potrebbe mai permetters­elo.

A Qom ho conosciuto Abbas, sessant’anni anni, laurea in architettu­ra conseguita in Italia e quattro figli nati e cresciuti in Puglia. Nel 1982 prese un aereo per Teheran. Aveva tre mesi liberi prima della sessione

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