“Zona”, da Chernobyl a Wuhan e Codogno: la Storia che si ripete
C’è la Zona e c'è il resto del mondo. La campagna di Lodi a sud di Milano o quella di Prip’jat a nord di Kiev o il mercato del pesce di Wuhan. Il male invisibile ha un epicentro dal quale si diffonde creando il vuoto. Ci sono di mezzo muri e muraglie, e l’incapacità di contenere, arginare. La Chernobyl cinese, la Wuhan Ucraina, le zone si possono invertire.
Nell’aprile del 1986 il regime comunista sovietico, guidato da un Gorbaciov appena arrivato al potere dopo la morte di una sequenza di zombie (Andropov e Chernenko), ha affrontato il disastro nucleare tra omissioni e occultamenti. Non si è mosso diversamente – finché ha potuto – Xi Jinping.
PENG YINHUA, un medico, lancia l’allarme sull’insorgere di una nuova Sars, viene messo a tacere e poi muore. Il fisico Valerij Legasov viene emarginato, dopo avere capito che la causa dell’avaria al reattore di Chernobyl è un difetto strutturale comune a molte altre centrali; e infine si suicida. Le reazioni censorie dei regimi comunisti sono simili. Il suicidio apre la serie tv Sky Chernobyl e questa frase la chiude: “Se un tempo mi chiedevo qual è il costo della verità, ora mi chiedo soltanto: qual è il costo della menzogna?”.
L’accostamento tra zone emerge leggendo oggi, al tempo del coronavirus, Una passeggiata nella zona, il romanzo-memoir scritto da Markijan Kamyš, il figlio di un “liquidatore” della centrale Lenin di Chornobyl (Chernobyl, in ucraino), tradotto molto bene da Alessandro Achilli, edito da Keller. Il termine “zona” qui viene dal film di Andrej Tarkovskij, Stalker, del 1979. La zona in questione è un luogo postapocalittico, semirurale e abbandonato. Un luogo dove può avvenire di tutto tra le rovine.
L’accesso alla zona è proibito e per accedere e visitarla ci vuole uno stalker, un incursore. Allo stesso modo Markijan Kamyš, nato nel 1988 e cioè due anni dopo il disastro nucleare, compie esplorazioni nell’area proibita, protetta meno rigidamente in un paese che ha ben altri problemi di cui occuparsi dopo la disgregazione dell’Urss, la crisi economica degli Anni 90 e quindi la guerra. È il gusto dell’avventura nella rovina a spingerlo, uno strano miscuglio di civiltà tecnologica andata a male e natura che riprende possesso dello spazio sottrattole dall’uomo, la specie più infestante. Si parte con il sacco a pelo e le provviste per tre giorni, per cinque giorni, per una settimana. Si dorme in case abbandonate. La natura è speranza di resurrezione e anche orrore: è il giardino domestico cresciuto come una giungla, un po’ come la gallina che razzola davanti alla Borsa di Zurigo nel romanzo Dissipatio H. G., di Guido Morselli.
A Codogno e dintorni gli stalker forse sono quelli che fuggono e stalkerizzano il resto del mondo come il ragazzo tornato di soppiatto a Bari, una scena un po’ coronavirus e un po’ Sacracoronavirus.
PER CHERNOBYL, si ricordano ancora i divieti di mangiare questo o quel cibo, i consigli a stare in casa. Il male invisibile produce emergenze che svuotano la vita, la rendono più irreale di quel che già è. Scrive Markijan Kamyš: “A volte penso che non esistiamo. Non ci sono quelle quaranta persone che regolarmente si mettono a vagare tra le paludi di Chornobyl. Un tempo c’eravamo, poi ci siamo dissolti tra gli acquitrini, ci siamo decomposti in lenticchie d’acqua, giunchi e luce del sole”. Le leggende sconfinano nella verità e sono comuni: in Cina il salto del virus dal pipistrello in brodo all'uomo, in Ucraina i vitelli a tre teste e tutte le altre deformità causate dalla “merda radioattiva”. Alla fine l’avaria nucleare o l'aviaria virale o quel che è diventa autobiografia, storia personale, magari museo a cielo aperto come a Chernobyl, zona permanente, rovina da visitare col sacco a pelo o sorvolare col drone da fighetti.
Il libro