L’ex capo di Polfer: “Il pm Pignatone me la fece pagare”
A Perugia Imputati del sequestro il questore di Palermo Cortese e il capo della Polfer Improta, che denuncia: “Il pm me la fece pagare”
“Il pm Eugenio Albamonte me l’ha fatta pag are” dice il 24 febbraio, in udienza, Maurizio Improta, imputato per il presunto sequestro di persona di Alma Shalabyeva e sua figlia Alma. Albamonte “mi ha indagato per reati che qui non ci sono” continua Improta che, parlando del suo interrogatorio dinanzi al pm romano (è stato “registrato”, specifica), definisce “drammatico”. Dichiarazioni “ardite”, commenta il presidente della Terza sezione penale di Perugia, Giuseppe Narducci. Per quale motivo, Albamonte, avrebbe dovuto farla “pagare” a Improta, però, in udienza non viene chiarito. Improta al Fatto risponde che non può rilasciare dichiarazioni sull’argomento. Come ovvio, il pm Albamonte deve mantenere il riserbo, previsto dalle norme, sui fascicoli che ha gestito personalmente. L’unico fatto certo è che la vicenda riguarda quel che accadde nel 2013.
Il 31 Maggio di quell’anno Alma e Aula Shalabayeva, moglie e figlia (sei anni) del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, ricercato dall’Interpol, vengono rimpatriate in Kazakistan. Due giorni prima la squadra mobile di Roma ha perquisito la loro abitazione di Casal Palocco per arrestare Ablyazov che però ha già provvidenzialmente lasciato la casa. A discutere dell’arresto, si scoprirà, furono anche dei funzionari kazaki presenti in Italia. Ne parlano con Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto dell’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano, che il 16 luglio 2013 si dimette. Alfano resta invece al suo posto. Quattro giorni prima, il 12 luglio, Palazzo Chigi revoca l’espulsione di Alma Shalabayeva: rientra in Italia il 27 dicembre, con un visto turistico, e pochi mesi dopo ottiene lo status di “rifugiata”.
LA VICENDA confluisce in un’indagine della procura di Perugia e nel successivo processo che – dopo ben 7 anni – è ancora in fase di dibattimento. Tra gli imputati c’è l’ex capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, il super poliziotto che arrestò Bernardo Provenzano e che oggi è questore di Palermo. Accanto a lui l’attuale direttore della Polfer, Maurizio Improta, all’epoca capo d e ll ’ ufficio immigrazione. L’accusa per entrambi è sequestro di persona. Quel che certamente manca, nel teorema dell’accusa, è il mandante: per conto di chi l’avrebbero sequestrata? Di certo, secondo la procura di Perugia, Shalabayeva avrebbe avuto un passaporto di copertura, rilasciato dal governo centrafricano, che non avrebbe dovuto portare all’espulsione.
Interrogato nell’udi en za del 24 febbraio scorso, dinanzi al presidente della terza sezione penale Giuseppe Narducci, Improta ricostruisce le ore che precedono il 12 luglio. Cita l’interrogatorio di Clara Vaccaro, sentita come persona informata sui fatti, che all’epoca era capo di Gabinetto della prefettura di Roma. Vaccaro revocò l’espulsione di Alma Shalabayeva in “autotutela” e spiega al pm Albamonte, nel 2013, che la revoca avviene “in relazione a elementi sopravvenuti”.
Il difensore di Shalabayeva, Federico Olivo, produce nuovi documenti. “Il provvedimento – continua Vaccaro - si fonda in via principale sul passaporto kazako, nonché sui permessi di soggiorno ottenuti dalla signora. Non c’è stata ragione per verificare ulteriormente i documenti esibiti in fotocopia poiché vi era un atto di indirizzo politico, nel senso di rivalutare i provvedimenti già assunti in presenza di elementi non precedentemente conosciuti”. Oltre gli “elementi nuovi” c’era quindi un “indirizzo politico” alla base della scelta operata da Vaccaro. Se è vero il quadro disegnato da Improta nel processo c’è fibrillazione già prima del 12 luglio: il capo della polizia Alessandro Pansa – sostiene Improta - stanco di vedere accusata la questura e il suo personale d’aver colpevolmente considerato falso il passaporto centrafricano della Shalabayeva, chiede al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al pm Albamonte, che avevano dato il nulla osta alla espulsione, di far analizzare il documento a una sorta di arbitro: il Ris dei Carabinieri.
IN QUEI GIORNI infatti il tribunale del Riesame aveva sostenuto che il passaporto della Shalabayeva era valido. “... fui chiamato sul mio cellulare da Albamonte – racconta Improta - che mi passò Pignatone che mi disse: ‘Ma questo passaporto?’. ‘Ma ce l’avete voi!’ risposi io”. E ancora: “Il lunedì successivo il capo della Polizia chiese al questore di Roma (Fulvio Della Rocca, ndr) di andare dal procuratore della Repubblica (…) per dirgli che si erano stancati di leggere articoli che denigravano l’attività della polizia di Stato in relazione alla consulenza tecnica, per proporre” a Pignatone “di far fare una nuova perizia al Ris dei Carabinieri. Andammo in comitiva: Della Rocca, Cortese e io. (…) Il pro
curatore si alterò quando il questore disse che il capo della polizia voleva che disponesse la perizia dei Ris. La risposta fu: ‘Il capo della polizia faccia il capo della polizia, io faccio il capo della procura e per me il passaporto è falso. E ci liquidò tutti e tre”. Interpellati dal Fatto Pignatone, Della Rocca e Cortese hanno preferito non commentare.