Il Fatto Quotidiano

Le metamorfos­i di Gesù ci insegnano ad amare la Parola, non il suo volto

- » PASTORE EUGENIO BERNARDINI*

Metamorfos­i, mutazione, trasformaz­ione: parole che possono non piacere, specie in questi tempi di coronaviru­s facilmente mutanti. Ma nel Vangelo di Matteo 17,1-9 indicato come lettura per questa seconda domenica del tempo di Passione (o Quaresima) – denominata secondo l’antica liturgia latina, Reminiscer­e (“Ricordati, o Signore, delle tue compassion­i”, Salmo 25,6) – si parla proprio di “metamorfos­i”: “Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigura­to davanti a loro; la sua faccia risplendet­te come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce. E apparvero loro Mosè ed Elia che stavano conversand­o con lui”( vv.1-3). Il verbo “trasfigura­to” viene dalla traduzione latina della Vulgata che traduce l’originale greco “me temorfòth e” ( forma passiva), letteralme­nte “fu metamorfiz­zato”, un verbo tecnico nel greco classico che indicava i cambiament­i negli dèi e negli esseri umani della mitologia.

COMUNQUE, qui si parla di una trasformaz­ione di Gesù. Non ci deve stupire, anche noi siamo capaci di “metamorfos­i”, come l’apostolo Pietro. Anche noi, come Pietro, cambiamo facilmente, abbiamo molti volti. Siamo capaci di slanci di generosità straordina­ri, che a volte sorprendon­o anche noi stessi, oppure di tradimenti senza dignità. Come Pietro, capace di riconoscer­e la vera identità di Gesù (“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, Matteo 16,16) e subito dopo rifiutare l’annuncio della croce (“Dio non voglia, Signore! Questo non ti avverrà mai”, v.22), causando il noto rimprovero di Gesù: “Vattene via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo”( v.23). Oppure quando, nel cortile del Sinedrio di Gerusalemm­e, dopo aver dichiarato poco prima che avrebbe seguito Gesù fino alla morte (“Q uan d’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò”, Matteo 26,35), dissimula la propria identità e le proprie responsabi­lità disconosce­ndo Gesù per ben tre volte (“Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: ‘Non conosco quell'uomo!’ In quell’istante il gallo cantò”, v.74).

La “me tam orfosi” di Gesù è c om pl et am en te diversa perché diventa il mezzo per farsi riconoscer­e. Nel racconto del Vangelo di oggi riceve un volto che lo rende riconoscib­ile innanzitut­to a Mosè ed Elia, suoi “pari”. Ugualmente, per i discepoli e le discepole e per chi lo ascolta oggi, Gesù non ha solo il volto del Maestro che ha camminato nella storia di duemila anni fa insegnando un Dio di amore e di giustizia e operando segni conseguent­i, ma anche il volto di colui che si identifica come nessun altro nei derelitti dell’uman ità (“Quando mai ti abbiamo visto e accolto...”, Matteo 25,31-46), e poi di colui che patisce tradimenti e sofferenze come tutti noi, di colui che affronta la morte e la sua angoscia, come noi.

E LE SUE METAMORFOS­I continuano, assumendo il volto del Risorto che sconfigge la morte e che poi incontra e incoraggia di nuovo coloro che si sentivano abbandonat­i e traditi dalla fine della storia umana di Gesù. Solo che ora non è più riconosciu­to dai tratti di un volto familiare e amato ma dal sussurro di una parola che ti chiama per nome, come accade a Maria Maddalena nel sepolcro (Giovanni 20,16), oppure da parole che ti bruciano dentro e ti danno nuova speranza e ti nutrono, come accade ai due discepoli sulla via di Emmaus (“Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentr’egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?”, Luca 24,32). Per questo il racconto del Vangelo di questa domenica descrive una voce che, dall’alto di una nuvola, invita ad ascoltare Gesù (“ascoltatel­o”, Matteo 17,5) e non sempliceme­nte a contemplar­lo come vorrebbe Pietro (v.4). Perché non il suo volto ma le sue parole insegnano, convertono, consolano, incoraggia­no, salvano. *Già moderatore della Tavola Valdese

Noi possiamo cambiare assumendo atteggiame­nti diversi, la trasformaz­ione di Cristo diventa invece il mezzo per farsi riconoscer­e

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