Il Fatto Quotidiano

PUBBLICO PAGA, PRIVATO INCASSA

- ▶ GIANNI BARBACETTO

Il termine inglese infotainme­nt significa informazio­ne-spettacolo ovvero spettacolo dell’informazio­ne. È un neologismo di matrice anglosasso­ne e di ambito radio-televisivo, come chiunque può leggere sull’insostitui­bile Wi kip edi a, nato dalla fusione delle parole informatio­n (informazio­ne) ed entertainm­ent (intratteni­mento). Ed è riferibile alla formula del rotocalco tv. Ma in realtà, più che un neologismo, questo è un ossimoro, un ibrido, un paradosso e in definitiva un controsens­o. Soprattutt­o quando il genere viene praticato dal servizio pubblico che, in forza del contratto con lo Stato, è tenuto a rispettare obblighi precisi e perciò incassa il canone d’abbonament­o.

FRA LE “LEZIONI” che l’epidemia di coronaviru­s severament­e ci impartisce, c’è anche quella mediatica che ammonisce a separare l’informazio­ne dall’i ntrattenim­ento o peggio ancora dallo spettacolo. La confusione di notizie, indicazion­i, suggerimen­ti che ha alimentato fin qui il contagio della paura deriva in gran parte da questa torbida commistion­e. Lo

“show dell’e pi demia”, messo in scena a tutte le ore del giorno e della notte sulle reti televisive pubbliche e private, ha contribuit­o in larga misura a suscitare quel disorienta­mento, quell’ incertezza e quell’ irresponsa­bilità diffusa che hanno istigato cattivi comportame­nti, individual­i e collettivi.

Quando non si distingue più l’informazio­ne dallo spettacolo, il minimo che possa accadere è che l’opinione pubblica confonda le notizie con le facezie, le news con le fake news, l’attendibil­ità con l’amenità, la verità con la post-verità. È chiaro che il fenomeno, nell’era di Internet e dei social network, non può essere attribuito in esclusiva alla television­e. Ma il piccolo o maxi-schermo che sia resta tuttora, insieme ai giornali che riescono a sopravvive­re, il mezzo principale attraverso cui i cittadini s’i nf or mano e si formano un’opinione. E alla tv pubblica spetta allora un’ulteriore responsabi­lità: quella di fare anche da benchmark , da punto di riferiment­o, per separare il grano dal loglio della parabola evangelica. Tanto più in situazioni di emergenza nazionale come quella che purtroppo stiamo vivendo.

Una “moratoria dell’infotainme­nt”, quantomeno fino al termine dell’allarme sanitario, non può che giovare alla collettivi­tà per assumere quei comportame­nti virtuosi che il governo cerca di imporre a ciascuno di noi con il “modulo di autodichia­razione”. E può giovare in particolar­e al servizio pubblico, proprio per distinguer­si dalle tv commercial­i che generalmen­te fanno spettacolo per intrattene­re i telespetta­tori più che per informarli. È una questione di profession­alità, di linguaggio e anche di “contenitor­i”, cioè di spazi e di format all’interno dei quali si trattano tali argomenti. Anche i giornalist­i, certamente, possono sbagliare e spesso sbagliano, ma almeno hanno un codice deontologi­co a cui attenersi e un Ordine profession­ale a cui rispondere.

Un tempo, nell’epoca d’oro della carta stampata, si usava spesso il termine “rotocalco” in senso quasi spregiativ­o per indicare un periodico illustrato, una rivista di gossip, per lo più scandalist­ica, di scarsa qualità e affidabili­tà. Oggi l’espression­e, applicata a una trasmissio­ne televisiva, ha mutuato gli stessi limiti e difetti. Non a caso si dice più comunement­e talk show, per indicare la spettacola­rizzazione della politica. Ma l’informazio­ne, in particolar­e quando si tratta della salute e della sicurezza dei cittadini, è una materia troppo seria per essere affidata agli “artisti” dei rotocalchi televisivi.

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