PUBBLICO PAGA, PRIVATO INCASSA
Il termine inglese infotainment significa informazione-spettacolo ovvero spettacolo dell’informazione. È un neologismo di matrice anglosassone e di ambito radio-televisivo, come chiunque può leggere sull’insostituibile Wi kip edi a, nato dalla fusione delle parole information (informazione) ed entertainment (intrattenimento). Ed è riferibile alla formula del rotocalco tv. Ma in realtà, più che un neologismo, questo è un ossimoro, un ibrido, un paradosso e in definitiva un controsenso. Soprattutto quando il genere viene praticato dal servizio pubblico che, in forza del contratto con lo Stato, è tenuto a rispettare obblighi precisi e perciò incassa il canone d’abbonamento.
FRA LE “LEZIONI” che l’epidemia di coronavirus severamente ci impartisce, c’è anche quella mediatica che ammonisce a separare l’informazione dall’i ntrattenimento o peggio ancora dallo spettacolo. La confusione di notizie, indicazioni, suggerimenti che ha alimentato fin qui il contagio della paura deriva in gran parte da questa torbida commistione. Lo
“show dell’e pi demia”, messo in scena a tutte le ore del giorno e della notte sulle reti televisive pubbliche e private, ha contribuito in larga misura a suscitare quel disorientamento, quell’ incertezza e quell’ irresponsabilità diffusa che hanno istigato cattivi comportamenti, individuali e collettivi.
Quando non si distingue più l’informazione dallo spettacolo, il minimo che possa accadere è che l’opinione pubblica confonda le notizie con le facezie, le news con le fake news, l’attendibilità con l’amenità, la verità con la post-verità. È chiaro che il fenomeno, nell’era di Internet e dei social network, non può essere attribuito in esclusiva alla televisione. Ma il piccolo o maxi-schermo che sia resta tuttora, insieme ai giornali che riescono a sopravvivere, il mezzo principale attraverso cui i cittadini s’i nf or mano e si formano un’opinione. E alla tv pubblica spetta allora un’ulteriore responsabilità: quella di fare anche da benchmark , da punto di riferimento, per separare il grano dal loglio della parabola evangelica. Tanto più in situazioni di emergenza nazionale come quella che purtroppo stiamo vivendo.
Una “moratoria dell’infotainment”, quantomeno fino al termine dell’allarme sanitario, non può che giovare alla collettività per assumere quei comportamenti virtuosi che il governo cerca di imporre a ciascuno di noi con il “modulo di autodichiarazione”. E può giovare in particolare al servizio pubblico, proprio per distinguersi dalle tv commerciali che generalmente fanno spettacolo per intrattenere i telespettatori più che per informarli. È una questione di professionalità, di linguaggio e anche di “contenitori”, cioè di spazi e di format all’interno dei quali si trattano tali argomenti. Anche i giornalisti, certamente, possono sbagliare e spesso sbagliano, ma almeno hanno un codice deontologico a cui attenersi e un Ordine professionale a cui rispondere.
Un tempo, nell’epoca d’oro della carta stampata, si usava spesso il termine “rotocalco” in senso quasi spregiativo per indicare un periodico illustrato, una rivista di gossip, per lo più scandalistica, di scarsa qualità e affidabilità. Oggi l’espressione, applicata a una trasmissione televisiva, ha mutuato gli stessi limiti e difetti. Non a caso si dice più comunemente talk show, per indicare la spettacolarizzazione della politica. Ma l’informazione, in particolare quando si tratta della salute e della sicurezza dei cittadini, è una materia troppo seria per essere affidata agli “artisti” dei rotocalchi televisivi.