Karajan, emblema della musica nei ricordi dell’amico Magiera
Dagli anni Settanta al luglio 1989, quando il Maestro morì (senza aver rivisto la Scala)
Leone Magiera è uno di quei preziosissimi musicisti parte della vita dei quali si svolge dietro le quinte. Eccellente pianista e direttore d’orchestra, tipicamente anti-divo, egli è stato uno dei più importanti istruttori di cantanti. Ha insegnato loro le parti con impareggiabile conoscenza della tecnica vocale, grande musicalità e possesso della cosiddetta tradizione, quando con tal vocabolo s’intende la parte alta di ciò che viene tràdito e non quella serie di abusi che la tradizione trasforma in tradimento alla musica. Dietro le quinte è stato anche direttore artistico e segretario artistico, ossia di quelli che giorno per giorno fanno la vita di un teatro lirico affrontandone gioie, imprevisti, drammi. Il suo stile è elevato e non recrimina: per esempio non menziona mai la proverbiale ingratitudine dei cantanti, fatte poche eccezioni. Magiera è stato uno dei pochi amici del sommo Karajan, e affida i suoi ricordi a un delizioso libro, Karajan. Ritratto inedito di un mito della musica (La nave di Teseo, pp. 265, euro 20).
L’AMBITO cronologico va dall’inizio degli anni Settanta al fatale luglio 1989 che vide la scomparsa del Maestro. Per me il libro è di particolare valore giacché tocca una serie di episodi o grandi eventi della musica anche da me seguiti o convissuti da lontano. Karajan non l’ho mai conosciuto, ma il giudizio di Magiera mi conforta nell’opinione, da me tante volte scritta, ch’egli fosse uomo disinteressato, non invidioso, non egolatra, non una macchina costruita per fare industrialmente soldi con le incisioni discografiche nel periodo segnante l’apogeo del loro successo. Il carisma che lo avvolgeva era straordinario. Non dirò unico perché io resto convinto che il più grande direttore d’orchestra del Novecento sia Gino Marinuzzi, ma Karajan possiede molte caratteristiche in comune con l’italiano e ha avuto la fortuna, rispetto a lui, di poter lavorare in anni nei quali la tecnica aveva fatto tanti progressi da conservare la memoria delle grandi esecuzioni come mai prima e dopo è stato possibile.
Karajan ha inciso, si può dire, quasi l’intero repertorio, e ha interpretato ancor più che non ab
bia inciso. Un certo colore orchestrale l’ha inventato lui, or rutilante e corrusco, or marezzato come seta, or cupo (le Metamorphosen di Strauss). Negli anni del dopoguerra, ancor pieni di geni della bacchetta, è stato irraggiungibile: e sì che c’erano Mitropoulos e tanti altri. Il tratto umano del Maestro si arricchisce con la confidenza ch’egli, da buon austriaco, amava i pettegolezzi di palcoscenico, li conosceva e si faceva raccontare da Magiera quelli della Scala. Col teatro milanese ruppe in occasione di un fatto sgradevole che ricordo benissimo (e fui tra i pochi a non unirmi al Crucifige decretato contro di lui dai Salotti milanesi): una questione di diritti televisivi in rapporto a due Don Carlos, l’uno dei quali diretto da Abbado. Karajan, o meglio la società che filmava il suo aveva ragione, ed egli si sarebbe atteso che un teatro al quale aveva tanto dato, e l’amicizia sempre manifestata verso l’Italia, gli procurassero la solidarietà del teatro stesso, che per viltà tacque. Così il Maestro alla Scala non è più tornato, e io ricordo gl’inani tentativi dei vari soprintendenti in questo senso. ORA TUTTO CIÒ è finito; e facile profezia che di Karajan, come di Marinuzzi e di Mitropoulos, non ne nasceranno più. Sempre meno si ricorda il passato. Ma per chi lo ricorda, Karajan resterà un possente emblema della Musica. Con le sue considerazioni profonde insieme e semplici Leone Magiera ci aiuta a esserne consci.