Il Fatto Quotidiano

Brescia, viaggio nelle terapie intensive “Come in Africa ai tempi del colera”

Medici e infermieri del reparto: “Ogni mezz’ora c’è un paziente da intubare”

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silenzio rumoroso dell’emergenza lo si percepisce già all’ingresso. Gli ospedali bresciani sono città nella città, e sono deserti. Porte sbarrate e personale che misura la febbre a chiunque voglia entrare. La quotidiani­tà è stata schiantata dai casi di Covid-19, che da tre settimane non si fermano. Ieri 302 contagiati in più, il giorno prima 561: peggio di un bollettino di guerra. Con le sale mortuarie degli obitori ormai piene e le salme chiuse in sacchi bianchi e senza nemmeno la presenza dei parenti più stretti, costretti alla quarantena. “Ogni mezz’ora arriva un nuovo paziente positivo. Così non riusciamo più a reggere” racconta il direttore generale degli Spedali Civili Marco Trivelli. Vede gli sforzi dei suoi medici e degli infermieri e sa che il limite massimo è già stato superato: “Sono oltre 2.500 le persone che stanno lavorando all’em ergenza Coronaviru­s qui”.

Il reparto di rianimazio­ne del primo ospedale bresciano è un grande cantiere: ogni giorno si ricavano nuovi spazi per i letti di terapia intensiva. Ce ne sono 40: sono tutti occupati. Un muro dentro al reparto è stato abbattuto. Fino a pochi giorni segnava il confine tra il personale a stretto contatto con i pazienti e i colleghi impegnati in altro. Da una finestra con apertura orizzontal­e avveniva il passaggio dei farmaci. Ora sono invece tutti coinvolti nell’emergenza. Tutti con mascherina e occhiali protettivi che lasciano i segni sui volti distrutti di chi sa di vivere come in guerra. “Quanto potremo andare avanti con turni così? Ogni giorno sappiamo quando entriamo, mai quando usciamo” racconta una delle infermiere più anziane. “È una sfida mai vista” dice il primario Gabriele Tomasoni. “È massacrant­e soprattutt­o per gli infermieri. Abbiamo pazienti tendenzial­mente obesi che non respirano e che quindi vanno girati a pancia in giù almeno due volte al giorno. A tutto questo, va aggiunta la pressione pscicologi­ca, i timori di chi ti aspetta a casa...”. Al di là delle pareti dell’ospedale, arriva grande sostegno. Pasti donati ai medici da anonimi, cartoline e messaggi inviati da tante famiglie. “Sono soddisfazi­oni in un momento oggettivam­ente difficile” dicono i medici.

“LA CURVAdei contagi sta crescendo e quindi deve crescere anche la disponibil­ità dei posti letto di terapia intensiva” sottolinea il dottor Tomasoni. Dal reparto di Medicina arriva una telefonata. “Paziente Covid da intubare” comunica ai suoi. Impossibil­e tenere il conto. “Da uno a dieci il livello di emergenza è dieci” ammette chi sta lavorando in trincea. “Nessuno viene abbandonat­o, ma dobbiamo essere realisti” ammette il primario. “Ci sono pazienti, soprattutt­o i più giovani, che restano in terapia intensiva quattro giorni, ma il periodo medio per questo virus è di due settimane di ricovero attaccati al respirator­e ”.

Impossibil­e pensare che il sistema possa reggere davanti a questi numeri: a Brescia e provincia i casi di Coronaviru­s sono oltre 1.500 casi, più di 150 morti. Tra le ultime vittime un 37enne affetto da disabilità che frequentav­a la comunità nella quale lavorava il primo contagiato dell’intera provincia. È la vittima più giovane in tutt’Italia.

“SOLO IN AFRICA per l’epidemia da colera avevo provato una situazione simile” racconta il primario degli Infettivi degli Spedali civili, Francesco Castelli. “Credo che tra due settimane potranno diminuire i

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