Il corvo, la rabbia e pure l’assurdità: le dieci cose per cui vale la pena vivere
LA SOLIDARIETÀ Persino la retorica, l’“andrà tutto bene”, è commovente e questo finché non diventa servizio da telegiornale: dal balcone al palinsesto
Aggiorno minuto per minuto la mia personale top ten del virus bastardo, come credo faranno tutti, più o meno consciamente. Sono le dieci cose per cui vale la pena vivere, come si diceva una volta su Cuore (gli anziani ricorderanno), ma diverse, più cattive e acuminate, certe volte feroci e certe volte agrodolci, piccole commozioni passeggere, spaventi veri, sollievi infantili. Le cose per cui in una giornata standard di (benedetti, doverosi) arresti domiciliari si ride, si piange, ci si incazza, ci si preoccupa e forse sono i cuscinetti d’aria su cui stiamo sospesi, in attesa.
PERDONERETE il fatto personale, ma metto al primo posto il corvo. Un corvo, o cornacchia, o non so (non me ne intendo) che canta ogni mattina, alle sei precise, come fosse una sveglia, da qualche parte nella via di sotto, silenziosa e deserta. Lo sento, non riesco a vederlo. Canta nel silenzio, non allegro, non triste, non so cosa dice, certo c’era anche prima, ma non l’ho mai sentito.
C’è il tempo della rabbia, naturalmente, un livore sordo che ti monta quando senti pontificare, discettare, proporre soluzioni, gente che fino a ieri ha votato per tagliare la sanità pubblica, ridurre, ottimizzare, razionalizzare e tutti gli eufemismi usati negli anni per impoverire la vera grande opera pubblica del Paese, il Sistema Sanitario Nazionale. Odio vero, cristallino, abbastanza alto in classifica, unito alla speranza un po’ naïf che alla fine – dopo, un giorno – si faranno i conti anche con quelli lì.
E poi: “A ogni angolo di strada il sentimento dell’assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia”, scriveva Camus. E l’assurdo ha il suo bel posto in classifica: gli americani in fila, distanziati di un metro, per comprare armi e munizioni con cui spararsi da molti metri; i due Mattei italiani, ormai un unico indistinguibile Matteo, che battono i media stranieri per attaccare il governo e intercettare un po’ di visibilità. E quell’altro, là, il vecchio Silvio, quello che “L’Italia è il Paese che amo”, e sta a Nizza.
Macron, Johnson, Trump che vuole comprarsi il vaccino. Il cartello nell’androne: “Chi vuole vado a fargli la spesa”; il secondo movimento della Serenata per
archi in Mi maggiore, op. 22 di Dvorák, quello che sembra che ti entri in casa la primavera, meraviglia beffarda; la conferenza stampa delle 18: quanti morti, quanti contagiati, quanti…
C os ’ è questo mischiare piccole faccende private e immense cose pubbliche? Questo saltare tra sensazioni e stati d’a nim o? Persino la retorica, la retorica altrimenti insopportabile, il “ce la faremo”, l’“andrà tutto bene”, appare digeribile, persino commovente, e questo finché non diventa retorica da telegiornale, cioè quando passa da sfogo popolare – vero, fremente, un sentimento – a servizietto giornalistico, compitino di alleggerimento, dal balcone al palinsesto.
Stanno nella top ten i libri ritrovati negli scaffali troppo alti, o troppo bassi, dove non li si cercava più da chissà quando, una distrazione dallo sfibrante esercizio su tattiche e strategie quotidiane: le mascherine, i respiratori, i letti in terapia intensiva, lo sguardo sospettoso e impaurito della commessa al supermercato.
E UNO STRANO SENSO di comunità in pericolo che un po’ riscalda, conforta, anche quello ai primi posti della classifica; e la narrazione su Milano, qui fuori, che va in mille pezzi, e i rider (trad: fattorini) coi loro cibi in spalla, le bici macilente, ora padroni delle strade, promossi d’incanto da schiavitù postmoderna a “servizio essenziale”, ma con la paga di merda di sempre. La top ten, cambia, muta, si trasforma, si modella agli stati d’animo, contiene speranza e odio, e stanchezza, e desideri. Tolgo Trump che chissenefrega, metto un Dylan del ’75. Il corvo che canta sta sempre primo in classifica, nella mia top ten, ormai lo aspetto, grato.