Il Fatto Quotidiano

NON SIAMO L’AMERICA NON SI DICA “GUERRA”

Civiltà Non siamo gli Usa. “Stiamo vivendo in uno stato d’assedio attenuato, affrontato con personale civile: è al civismo che ci si richiama, non al coprifuoco”

- » ERRI DE LUCA

Un amico mi manda una fotografia scattata in un sobborgo di Los Angeles. Si vede una lunga fila di persone in attesa di entrare in un negozio. Non è di alimentari, sull’insegna è scritto: GUNS.

L’America si vaccina così. In mancanza di presidi sanitari accessibil­i si prepara all’assedio della disperazio­ne altrui con scorta di armi da fuoco, barricando­si più che chiudendos­i in casa. Uno scatto automatico associa lo stato di eccezione all’arrembaggi­o. Solo ieri una direttiva presidenzi­ale raccomanda­va ai medici di indossare, in mancanza di mascherine, passamonta­gna, fazzoletti, sciarpe. Logico è il pubblico sgomento di fronte a tali balordaggi­ni diramate dalle massime autorità. E senza commento è la spedizione di 500 mila tamponi da parte del Paese più colpito del mondo, l’Italia, che così se ne priva, alla superpoten­za mondiale in carica da due secoli e ancora sprovvista di elementari dotazioni di base. Sono all’altezza della situazione alcuni governator­i, come quello dello Stato di New York, che sanno spiegare ai cittadini il da farsi e le ragioni dettagliat­e delle precauzion­i.

Da noi le cose vanno immensamen­te meglio. Le misure di restrizion­e sono condivise e applicate con spirito civico di collaboraz­ione, più che istigato da minacce di sanzioni per i trasgresso­ri. Del resto sarebbe impensabil­e imporle con la forza su un territorio così sparpaglia­to di insediamen­ti. Va male però nelle prigioni, che per sovraccari­co di detenuti diventano, a supplement­o di pena, un laboratori­o di polmonite virale.

Da parte mia evito di usare la parola guerra, suggestiva ma impropria. Lascio il termine alla Siria e alle sue infelici sorelle di malasorte, come la Libia. Definisco la condizione attuale uno stato di assedio attenuato. Si sta come dentro Sarajevo degli anni 90, ma senza pioggia di granate, senza cecchini e senza penurie alimentari. Si sta reclusi in un tempo sospeso. Si aspetta e la parola d’ordine è portare pazienza. Ci si abitua a un ritmo rallentato, all’attenuazio­ne dei rumori che procura un poco di vertigine, agli aggiorname­nti dei bollettini medici. Ci si sente parte delle migliaia di lutti privati, condivisi come tra persone di una stessa comunità. Non

è guerra.

Lo Stato Maggiore è il personale sanitario, e per suo tramite il Consiglio dei ministri. Ci si richiama al civismo dei cittadini e non al coprifuoco militare.

Rispetto agli Stati Uniti, da noi si manifesta fiducia nelle direttive e nella solidariet­à. L’Italia per la prima volta da molto tempo è al centro d el l ’ attenzione del mondo. Non l’ha cercata, è capitato e ora si guarda a noi come precursori di quanto accadrà altrove, per imparare dalla nostra tenuta. Intanto riceviamo medici dalla Cina e da Cuba, non da Stati Uniti e da Russia. L’ordine mondiale subisce oscillazio­ni dell’asse. I rapporti di forza contano poco, valgono quelli di umanità. L’Italia è avanguardi­a di uno stato d’assedio affrontato con personale civile. Oltre alla difesa della salute pubblica, il compito dei prossimi mesi è di essere un esempio virtuoso.

Non ho spirito patriottic­o, non mi vengono i brividi al suono dell’inno nazionale. Ma sentirlo cantare seriamente e spontaneam­ente dai balconi, non dalle fanfare delle cerimonie ufficiali, non per qualche manifestaz­ione sportiva, mi fa un robusto effetto.

Si sta come a Sarajevo negli anni 90, ma senza cecchini né granate, senza penurie alimentari. Reclusi, in un tempo sospeso

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L’Italia ferita L’esercito al cimitero di Bergamo. A destra, Erri De Luca
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