Il Fatto Quotidiano

Gianni, giocoliere pantagruel­ico di storie e parole

Il grande giornalist­a è morto per un infarto: aveva saputo raccontare come pochi la fatica dello sport. Maestro di anagrammi, cultore della poesia, detestava i punti e virgola: “Ci vuole ritmo”

- » LEONARDO COEN

Un infarto ha ucciso ieri mattina l’amico geniale (e burbero) Gianni Mura, talento purissimo del nostro giornalism­o. Aveva 74 anni. Ha scritto bellissime pagine di sport. E di tanto altro. Stava a Senigallia dove si trovava in convalesce­nza, reduce da una polmonite, ospite di una collega. Lì per lì ho pensato a una fake news. Un omonimo, ho sperato. Ho associato in automatico la notizia al coronaviru­s, ma stavolta il Covid-19 si è rivelato innocente: la conferma mi ha lasciato sgomento. Senza parole.

APPUNTO, parole: “L’opera”. “Le apro”.“E parlo”... gli anagrammi sono misteri gaudiosi, ci disse una volta Gianni scodelland­o con perizia da biscazzier­e i dadi da poker coi quali, assieme a Enr ico Bonerandi, Guido Passalacqu­a e Fabrizio Ravelli, giocavamo alternando agonismo ludico e battute sferzanti, su nella sua stanzetta al quarto piano di via De Alessandri, dove si trovava la redazione milanese di R epubblica.“I giochi di parole”, ci diceva, non finiscono mai, “bisogna aver fogli”. Spostando una sillaba o una vocale però diventava un’altra plausibile frase: “I giochi di prole, bisogna aver figli” e come potevi non ammirare le acrobatich­e doti lessicali (“Lessico e nuvole”...). Pochi giorni fa aveva rassicurat­o gli amici, tranquilli, sto bene qua a Senigallia, ho ancora una buona scorta di Settimane Enigmistic­he , non a caso la fulminante rubrica quotidiana “Spassaparo­la” era la più letta di Repubblica. Ieri c’era questa: “Fascia: tagliente striscia di tessuto”. Piccoli capolavori d’arguzia e di cultura.

Qualità che Mura disseminav­a a ogni riga e a ogni convivio. Che scrivesse di calcio o di Tour de France, che concionass­e di cibi e vini, che intervista­sse un vecchio campione o che stigmatizz­asse il razzismo nel calcio o l’imbecillit­à “senza confini” (“ma la gente perbene è di più”). Odiava sprecare aggettivi: “Ci vogliono. Precisi, non aggiunti a capocchia”. Detestava i punti e virgola, preferiva i punti alle virgole. Il ritmo. Nella rubrica settimanal­e “sette giorni di cattivi pensieri” chiudeva sempre coi versi di poesie o di canzoni. Amava la musica nelle parole e le parole della musica. Per chissà quale misterioso intreccio del destino, Mura è morto nel giorno dedicato alla poesia, sebbene l’idea di ingabbiare la poesia per decreto lo irritava, ogni giorno è giorno per la poesia. Che è pure il giorno in cui sono nati Alda Merini e Luigi Tenco.

Gianni sapeva a memoria i testi dei grandi cantautori: Tenco, appunto, Fabrizio De André, Paolo Conte, Enzo Jannacci (ma anche Sergio Endrigo). E George Brassens. E Jacques Brel, “avec la mer du Nord pour dernier terrain vague...”, citava spesso l’inizio del Plat pays: gli rammentava le atmosfere stoiche e antiche delle “c las si ch e” del Nord come la Roubaix, fango, sudore e polvere, il pavé di un ciclismo di memoria più che di cronaca.

Eppure, un cruccio lo tormentava. Il ciclismo celava maschere inquietant­i, e opachi successi: “La fatica in sella resta sempre sconcia, la salita non si negozia mai se non con il sacrificio”, mi disse un giorno al Tour del 2015, “ma mi sono sentito tradito da Lance Armstrong”, dal suo doping. L’eroe che aveva celebrato era un bugiardo. Un malandrino: “Racconto quel che vedo, non so se quel che vedo è quel che credo di aver visto”. Restava aggrappato alla France del Tour de France, all’anima profondame­nte popolare del ciclismo. Fu addolorato per la recente scomparsa di Raymond Poulidor, l’eterno secondo della Grande Boucle. Scriveva, Gianni, al ritmo di una tastiera pensionata, quella dell’Olivetti 32, e l’anacronist­ico ticchettìo si spandeva in sala stampa, poi, purtroppo, fu costretto alla resa. Il sistema editoriale gli impose il portatile, col quale litigava. Il nostro è un mestiere pieno di insidie e di trappole. Tanti anni fa – in fondo ci conoscevam­o da solo mezzo secolo – ci trovammo ai Giochi di Seul in un ascensore assieme a Florence Griffith, che aveva demolito il record dei 100 metri, e con Carl Lewis. Dovevamo arrivare in cima, a Casa Italia. Lewis faceva strane smorfie con le labbra, verso Gianni: “Leo, se continua a fare il cascamorto, lo strangolo”, mi disse in un soffio, “sarà pure il figlio del vento, ma con me non ha un glande potere...”. Gioco di consonanti...

QUALCHE TEMPO FA, per una commemoraz­ione di Gianni Brera, ci ritrovammo a San Zenone Po, ospiti di una p aci ada, una“scorpaccia­ta” di prodotti enogastron­omici locali. Lo trovai dimagrito :“Ho perso ventidue chili, sono a dieta, ordini del medico ”. Doveva essere una dieta tollerante, perché non rinunciò ad affettati e risotti, né a trincare buoni rossi dell’O lt rep ò: “Tanti salumi a tutti”, disse sornione, congedando­si.

Che la terra ti sia lieve, adesso finisci pure il tuo pacchetto di Gitane, quello che tieni sempre di riserva (Bonerandi ricorda invece le stecche di Ms).

Con Lewis Il campione, che aveva demolito il record dei 100 metri, faceva smorfie con le labbra La reazione: “Sarà il figlio del vento, con me non ha un glande potere”

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Fotogramma Spassaparo­la La rubrica quotidiana di Gianni Mura su “Repubblica”

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