LA LOMBARDIA È FUORI CONTROLLO
PIÙ MORTI LÌ CHE IN TUTTA LA CINA. CONTE: “SERRATA DELLE ATTIVITÀ NON ESSENZIALI, SONO RINUNCE SALVA-VITA”
La curva dei contagiati e dei morti sembra salire un po’ meno ovunque fuorché nella Lombardia, che da sola ha superato quelli di tutta la Cina. Ilaria Capua ipotizza che la “sanità modello” lombarda non solo abbia diffuso il virus, ma l’abbia financo moltiplicato tramite le condotte di aerazione contaminate di ospedali pubblici vetusti (intanto i soldi andavano alla sanità privata). Massimo Galli del Sacco conferma ciò che disse Conte quando, senza incolpare medici e infermieri, notò che qualcosa all’ospedale di Codogno non aveva funzionato, e ci aggiunge quello di Alzano Lombardo: “Hanno amplificato la malattia, si aspettava qualcuno che poteva arrivare dalla Cina e intanto il virus ha circolato libero per quattro settimane prima che ci si accorgesse di lui”. Le partite di calcio, l’eventuale mutazione del virus e le scemenze dei sindaci Sala e Gori su Milano e Bergamo da bere e da spritzare hanno fatto il resto, insieme agli stop and go della Regione, più sensibile a Confindustria che ai virologi. Ieri sera il governo ha fatto (addirittura su scala nazionale) ciò che Fontana e la sua giunta non avevano voluto fare. Dicevano sempre “non basta, vogliamo di più, chiudiamo tutto”, ma non facevano nulla. La Regione – come tutte, responsabili esclusive della sanità pubblica – ne aveva i poteri. Ma il governatore mascherato preferiva buttare la palla a Roma chiedendo truppe inutili, esaltando pannicelli caldi come il Bertolaso Hospital (300 posti che si riempiono in mezza giornata), pretendendo dal governo i divieti che non aveva il coraggio di imporre lui.
Ora le chiacchiere stanno a zero. I primi quattro decreti Conte hanno recepito le indicazioni degli scienziati e il quinto quelle dei sindaci bergamaschi e della giunta Fontana. Se la Lombardia, che sta all’Italia come Wuhan alla Cina, continuerà a dire che bisogna fare di più, lo faccia e la pianti con lo scaricabarile (altre regioni hanno già preso iniziative autonome, peraltro quasi tutte demenziali). Da tempo la Cgil segnalava che ogni giorno si muovono per lavoro a Milano 300mila persone che non svolgono mestieri indispensabili, affollando vieppiù strade, autobus, metro, treni per pendolari e fabbriche. Eppure la Regione non ha fatto nulla: neppure chiedere al governo di chiudere uffici pubblici e aziende inessenziali, anche se a giudicare dal volume delle telechiacchiere quotidiane pareva il contrario. Quando tutto sarà finito, chi pretendeva “più autonomia” dovrà spiegare perché in questo dramma apocalittico non ha esercitato neppure quella che già ha. Parafrasando Longanesi: meglio assumere un Bertolaso che una responsabilità.
L’appello
è disperato: “Chiediamo alle istituzioni di fermare tutto”. Arriva dai medici di Brescia, dove ieri si sono contati 328 casi di contagi in più: dall’i ni z i o dell’epidemia, sono a quota 5.028. “Non si può continuare a far circolare le persone – dice Sergio Cattaneo, primario di Cardiorianimazione degli Spedali civili della città –, le terapie intensive della Lombardia non hanno più posti”. Appello condiviso da Paolo Terragnoli, primario del pronto soccorso della Clinica Poliambulanza di Brescia: “Vediamo ogni giorno aumentare i giovani contagiati. È finito il momento di uscire, bisogna stare a casa e chiudere tutto”. Richiesta accorata in una regione travolta anche dall’alto numero di medici e infermieri infettati: sono già oltre 2.800, in costante crescita.
I dati dell’Istituto superiore della Sanità, del resto, confermano: gli operatori contagiati ieri erano, a livello nazionale, 4.268. Il che significa 614 in più rispetto a venerdì scorso, un balzo che ha sfiorato il 17%.
I sanitari lombardi sono allo stremo. Tra Bergamo, Brescia, Crema, Mantova. Nelle corsie degli ospedali, in ginocchio, di fronte alla forte carenza di mascherine filtranti, quelle necessarie soprattutto nelle terapie intensive, c’è anche chi si arrangia come può. A volte con sacchetti di plastica o sacchi della spazzatura tenuti stretti da nastro adesivo. “La foto che avete pubblicato in prima pagina è dr am ma ti ca ”, dice Stefano Magnone, segretario regionale del sindacato dei medici Anaao, e medico chirurgo a Bergamo. “L’ho inviata alla Regione Lombardia e, come sindacato, faremo una denuncia: è un problema di sanità pubblica quello che il Fatto denu ncia”. “Per le mascherine chirurgiche non c’è problema: quelle ci sono – prosegue Magnone – quelle che scarseggiano davvero sono le filtranti, così come mancano i camici impermeabili. Le forniture arrivano, ma vanno esaurite nell’arco di 36 ore”. La battaglia – oltre al contenimento del contagio – è anche questa: il reperimento dei Dpi, i dispositivi di protezione individuale.
È COSÌ ANCHE in Piemonte, e in Valle d’Aosta, dove mancano i camici idrorepellenti: e allora ai sanitari del reparto Covid dell’ospedale regionale Parini sono stati dati in uso quelli utilizzati dai veterinari. Un ripiego, in attesa del rifornimento dei camici adeguati. In Piemonte la situazione è ancora più drammatica, come dimostra la lettera con la quale l’Ordine dei medici di Torino si è rivolto al premier Giuseppe Conte, al ministro della Salute Roberto Speranza, al capo della Protezione civile Angelo Borelli e al presidente della conferenza Stato-Regioni, Stefano Bonaccini. “Vi preghiamo di intervenire con urgenza”, ha scritto il presidente dell’Ordine Guido Giustetto, raccogliendo intorno a sé anche tutti i sindacati di categoria: “Il personale sanitario è sprovvisto degli adeguati dispositivi di protezione e cura i pazienti a rischio della propria salute. Mancano ventilatori, caschi Cpap, farmaci. Non abbiamo medici a sufficienza, sia per l’esplosione dei casi ricoverati sia per la quarantena di molti di noi, che si sono infettati. Vi preghiamo di rifornirci al più presto di tutto il necessario per curare la popolazione senza rischiare la vita”. In Piemonte mancano anche i caschi Cpap monouso per la ventilazione non invasiva. Servono ai pazienti, per evitare l’intubazione, e quindi la terapia intensiva, ma non ci sono. E allora l’unità di crisi della Regione ha dato disposizione a infermieri e Oss, gli operatori sociosanitari, di
Segretario Anaao “La foto del Fatto inviata in Regione: denunceremo” Altre segnalazioni da Piemonte e Valle d’Aosta
“ricondizionarli”, che significa lavarli e sanificarli, per poi utilizzarli su altri pazienti in crisi respiratoria. Ma il punto è che non si sa nè come né dove. Un grande caos.
Intanto spunta anche la questione del trattamento dei dispositivi già usati. Sono rifiuti speciali, possono essere infetti, dovrebbero essere tenuti in aree isolate. E invece, denunciano i volontari e i dipendenti delle strutture che garantiscono le ambulanze in convenzione con Areu – l’azienda regionale emergenza urgenza della Lombardia –, vengono lasciati in aree di passaggio, anche negli ospedali.