Il Fatto Quotidiano

Il virus rimane lì fino a 21 giorni, anche nei guariti

BERGAMO I timori degli operatori Dal Papa Giovanni: ” Da 7 giorni senza sintomi, ma test è positivo”. Sileri: “Farne di più”. Ma il nodo sono i tempi

- » MARCO PASCIUTI

le cose da fare c’è questa: quando si individua un caso, specie con numeri contenuti come al centro-sud, la segnalazio­ne va fatta subito al soggetto pubblico competente “in modo che possa essere attivata immediatam­ente l’inchiesta sul malato, la sorveglian­za dei contatti e definita la popolazion­e esposta”, anche “nel caso di visita ambulatori­ale” ra c c ogliendo “i nomi dei presenti in sala d’attesa”.

TORNANDO al centro di questa vicenda, cioè alla ( non) preparazio­ne del Servizio sanitario nazionale all’onda dell’emergenza, il piano calabrese è illuminant­e: “Ogni Azienda Sanitaria deve stimare il fabbisogno di DPI attraverso il censimento degli operatori sanitari, per singolo presidio e mettere a punto dei piani di approvvigi­onamento e distribuzi­one”. Ma solo negli ospedali? Giammai: anche in “ambulatori, distretti, servizi di sanità pubblica e veterinari, laboratori. Dovrà inoltre essere prevista la fornitura di DPI ai servizi di guardia medica e 118, ai lato e gli si chiedono le sue abitudini di vita, i suoi contatti, fino all’ultimo colpo di tosse e all’ultimo caffè bevuto in un bar. I coreani e più ancora i cinesi hanno usato anche la tecnologia per monitorare la vita delle persone. I Carabinier­i sono in grado di conoscere gli spostament­i e gli incontri degli italiani mediante lo studio delle celle dei loro cellulari però ci vuole il decreto di un giudice. La politica si sta interrogan­do se sia il caso di introdurre delle limitazion­i al diritto alla riservatez­za ma è una questione delicata. Però già oggi c’è una fase del tracciamen­to che non richiede tecnolomed­ici di medicina generale ed ai pediatri”. E questo, ovviamente, riguarda anche i farmaci e i macchinari necessari. Insomma, qualcuno – e certo non solo in Calabria a giudicare dalla situazione generale - deve avere dimenticat­o di fare scorta quand’era il momento. Infine citiamo solo di sfuggita la formazione da fare a tutto il personale sul piano pandemico e le regole, su cui si insiste molto, per comunicare alla popolazion­e. Un solo estratto: “Definire messaggi chiari, omogenei, condivisi a livello nazionale e locale, elaborati sulla base della percezione collettiva del rischio”. Magari non è tutta colpa dei runner... gia e norme anticostit­uzionali ma solo maggiore impegno. La via italiana al momento invece funziona così: non si fanno i test nemmeno a chi ha la polmonite. Chi ha la febbre e la tosse segnala al medico di famiglia, che segnala alle Asl, che quasi sempre non rispondono. Il malato si tiene il dubbio e talvolta il virus. Resta a casa o magari va in giro a infettare qualcuno. Quando finalmente viene individuat­o, quasi sempre allo stato grave, gli si chiedono i contatti ma non sempre vengono chiamati. Il monitoragg­io è lasciato al solo medico di famiglia.

RESTARE a casa è giusto. Punire chi non rispetta le regole è giusto. Però non bisogna illudersi che basti stare serrati in casa a lanciare il gavettone al podista o multare chi prende il sole per far scendere la curva del contagio. Mentre noi stiamo a casa ci vuole qualcuno che dia la caccia al virus.

Il primo tampone è risultato positivo il 9 marzo. “Ho ripetuto il test il 20, dopo oltre 7 giorni dalla fine dei sintomi, ed era ancora positivo. Questo fa pensare che si rimane contagiosi a lungo anche dopo la guarigione clinica completa”. Francesca, nome di fantasia, è un medico. Lavora nel reparto di Medicina interna dell'ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo, struttura in prima linea nel cuore del focolaio lombardo. "Sono molti i colleghi nella mia condizione. E noi medici siamo controllat­i: pensi al cittadino che sta a casa e una volta passate febbre e tosse va a incontrare amici e parenti pur essendo ancora potenzialm­ente effettivo", spiega la dottoressa, mentre si fanno sempre più forti le voci che chiedono al governo di cambiare il metodo di rilevazion­e dei contagi.

L'Italia, che segue le linee guida dell'Oms, dal 27 febbraio i tamponi li fa solo a chi ha sintomi. Ma "sarebbe utile un’estensione a coloro che hanno sintomi che non siano necessaria­mente febbre e difficoltà respirator­ie", ha detto ieri a Fanpage il viceminist­ro della Salute Pierpaolo Sileri. Il solco è quello tracciato da Luca Zaia, che ha promesso test a tappeto nel suo Veneto sul modello di Vo' Euganeo, dove la diffusione del Covid-19 sembra essersi fermata. Il 16 marzo l’Oms ha raccomanda­to di "aumentare il numero dei test ai sanitari in prima linea" ma continua a escludere lo screening di massa. Ieri poi Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute, ha indicato l'esempio della Corea del Sud: 300mila test e una capillare ricostruzi­one dei contatti avuti dagli oltre 9mila positivi hanno permesso a Seul di piegare verso il basso la sua curva dei contagi. E l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera ha annunciato delibere per garantire test ai medici di base e al personale ospedalier­o se hanno “più di 37 di febbre”. Ora le testimonia­nze che arrivano dagli ospedali paiono suggerire la necessità di rivedere anche le tempistich­e delle analisi.

"Ho lavorato fino al 1° marzo – racconta al Fatto la dottoressa – avevo avuto contatti con pazienti poi risultati infettati. Quella notte ho avuto i primi sintomi, con febbre alta, tosse e dispnea, che nei giorni successivi sono peggiorati. Non ho avuto bisogno di ricovero, ma sono rimasta a casa. Il 9 marzo ho fatto il

Sorveglian­za attiva Oltre a immagazzin­are tutto quel che serve, vanno censiti subito i contatti dei contagiati

Si sono verificati casi di positività anche dopo le due settimane Se una persona non è più malata, la carica virale è più bassa, anche se non vuol dire che non ci sia

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