Il virus rimane lì fino a 21 giorni, anche nei guariti
BERGAMO I timori degli operatori Dal Papa Giovanni: ” Da 7 giorni senza sintomi, ma test è positivo”. Sileri: “Farne di più”. Ma il nodo sono i tempi
le cose da fare c’è questa: quando si individua un caso, specie con numeri contenuti come al centro-sud, la segnalazione va fatta subito al soggetto pubblico competente “in modo che possa essere attivata immediatamente l’inchiesta sul malato, la sorveglianza dei contatti e definita la popolazione esposta”, anche “nel caso di visita ambulatoriale” ra c c ogliendo “i nomi dei presenti in sala d’attesa”.
TORNANDO al centro di questa vicenda, cioè alla ( non) preparazione del Servizio sanitario nazionale all’onda dell’emergenza, il piano calabrese è illuminante: “Ogni Azienda Sanitaria deve stimare il fabbisogno di DPI attraverso il censimento degli operatori sanitari, per singolo presidio e mettere a punto dei piani di approvvigionamento e distribuzione”. Ma solo negli ospedali? Giammai: anche in “ambulatori, distretti, servizi di sanità pubblica e veterinari, laboratori. Dovrà inoltre essere prevista la fornitura di DPI ai servizi di guardia medica e 118, ai lato e gli si chiedono le sue abitudini di vita, i suoi contatti, fino all’ultimo colpo di tosse e all’ultimo caffè bevuto in un bar. I coreani e più ancora i cinesi hanno usato anche la tecnologia per monitorare la vita delle persone. I Carabinieri sono in grado di conoscere gli spostamenti e gli incontri degli italiani mediante lo studio delle celle dei loro cellulari però ci vuole il decreto di un giudice. La politica si sta interrogando se sia il caso di introdurre delle limitazioni al diritto alla riservatezza ma è una questione delicata. Però già oggi c’è una fase del tracciamento che non richiede tecnolomedici di medicina generale ed ai pediatri”. E questo, ovviamente, riguarda anche i farmaci e i macchinari necessari. Insomma, qualcuno – e certo non solo in Calabria a giudicare dalla situazione generale - deve avere dimenticato di fare scorta quand’era il momento. Infine citiamo solo di sfuggita la formazione da fare a tutto il personale sul piano pandemico e le regole, su cui si insiste molto, per comunicare alla popolazione. Un solo estratto: “Definire messaggi chiari, omogenei, condivisi a livello nazionale e locale, elaborati sulla base della percezione collettiva del rischio”. Magari non è tutta colpa dei runner... gia e norme anticostituzionali ma solo maggiore impegno. La via italiana al momento invece funziona così: non si fanno i test nemmeno a chi ha la polmonite. Chi ha la febbre e la tosse segnala al medico di famiglia, che segnala alle Asl, che quasi sempre non rispondono. Il malato si tiene il dubbio e talvolta il virus. Resta a casa o magari va in giro a infettare qualcuno. Quando finalmente viene individuato, quasi sempre allo stato grave, gli si chiedono i contatti ma non sempre vengono chiamati. Il monitoraggio è lasciato al solo medico di famiglia.
RESTARE a casa è giusto. Punire chi non rispetta le regole è giusto. Però non bisogna illudersi che basti stare serrati in casa a lanciare il gavettone al podista o multare chi prende il sole per far scendere la curva del contagio. Mentre noi stiamo a casa ci vuole qualcuno che dia la caccia al virus.
Il primo tampone è risultato positivo il 9 marzo. “Ho ripetuto il test il 20, dopo oltre 7 giorni dalla fine dei sintomi, ed era ancora positivo. Questo fa pensare che si rimane contagiosi a lungo anche dopo la guarigione clinica completa”. Francesca, nome di fantasia, è un medico. Lavora nel reparto di Medicina interna dell'ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo, struttura in prima linea nel cuore del focolaio lombardo. "Sono molti i colleghi nella mia condizione. E noi medici siamo controllati: pensi al cittadino che sta a casa e una volta passate febbre e tosse va a incontrare amici e parenti pur essendo ancora potenzialmente effettivo", spiega la dottoressa, mentre si fanno sempre più forti le voci che chiedono al governo di cambiare il metodo di rilevazione dei contagi.
L'Italia, che segue le linee guida dell'Oms, dal 27 febbraio i tamponi li fa solo a chi ha sintomi. Ma "sarebbe utile un’estensione a coloro che hanno sintomi che non siano necessariamente febbre e difficoltà respiratorie", ha detto ieri a Fanpage il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri. Il solco è quello tracciato da Luca Zaia, che ha promesso test a tappeto nel suo Veneto sul modello di Vo' Euganeo, dove la diffusione del Covid-19 sembra essersi fermata. Il 16 marzo l’Oms ha raccomandato di "aumentare il numero dei test ai sanitari in prima linea" ma continua a escludere lo screening di massa. Ieri poi Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute, ha indicato l'esempio della Corea del Sud: 300mila test e una capillare ricostruzione dei contatti avuti dagli oltre 9mila positivi hanno permesso a Seul di piegare verso il basso la sua curva dei contagi. E l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera ha annunciato delibere per garantire test ai medici di base e al personale ospedaliero se hanno “più di 37 di febbre”. Ora le testimonianze che arrivano dagli ospedali paiono suggerire la necessità di rivedere anche le tempistiche delle analisi.
"Ho lavorato fino al 1° marzo – racconta al Fatto la dottoressa – avevo avuto contatti con pazienti poi risultati infettati. Quella notte ho avuto i primi sintomi, con febbre alta, tosse e dispnea, che nei giorni successivi sono peggiorati. Non ho avuto bisogno di ricovero, ma sono rimasta a casa. Il 9 marzo ho fatto il
Sorveglianza attiva Oltre a immagazzinare tutto quel che serve, vanno censiti subito i contatti dei contagiati
Si sono verificati casi di positività anche dopo le due settimane Se una persona non è più malata, la carica virale è più bassa, anche se non vuol dire che non ci sia
DIRETTORE DIPARTIMENTO MICROBIOLOGIA