Il Fatto Quotidiano

Era un pantagruel­ico, leggerlo significav­a non sentirsi soli

Le cene infinite, i consigli enogastron­omici e le storie che tu sapevi già, ma che lui raccontava meglio

- » ANDREA SCANZI

Gianni Mura era un talento puro e la sua idea di andarsene ieri a 75 anni è una delle poche che non mi è piaciuta. I suoi racconti dal Tour de France resteranno vette rare, e non solo quelli. Gianni aveva cuore, talento, ego, spigoli, genio e generosità. Per molti era “l’unico erede di Brera”. Lo pensava anche lo stesso Brera. Mura ne parlava con quell’affettuosa deferenza con cui si parla dei maestri. Eppure ho sempre pensato a Gianni (Mura) come solo e soltanto a Gianni (Mura): aveva il suo stile, la sua musica. La sua utopia. Per chi ha amato la letteratur­a sportiva, e per chi ha creduto anche in tempi non sospetti che lo sport potesse essere epica, Gianni è stato un amico. Un faro. Un compagno di strada e di sogni.

Due o tre vite fa ho avuto la fortuna frequentar­lo. Mi telefonò un giorno d’autunno del 2003 e mi disse a bruciapelo: “Ho deciso di assegnarti il Premio Sporterme, perché sei il giornalist­a under 30 più bravo d’Italia”.

FU UNO DEI GIORNI più belli della mia vita, perché se me lo diceva lui allora forse un po’ era vero. Dopo la cerimonia a Bagno di Romagna, facemmo le sei del mattino a bere con Bruno Pizzul, Giovanni Galeone e altri pazzi. Fu una sorta di iniziazion­e per me e la mia ex moglie: o ricevevi (anzitutto da Gianni) la qualifica di “uno che sa reggere bene il vino”, o alla sua corte anarchico-etilica neanche potevi avvicinart­i. Con lui, quando tutto funzionava, erano ore perfette. Le cene infinite – negli

slowfood che tiravano tardissimo a Milano, alle “Maschere” di Sarsina, “Da Maurizio” a Cravanzana in alta Langa – con sua moglie Paola, Luigi Bolognini, Gigi Garanzini, il vignaiolo Flavio Roddolo e chi aveva la fortuna di esserci; la sua prefazione al mio Canto

del cigno, nella quale mi rimprovera­va di innamorarm­i sempre della “bellezza fredda”(Van Basten, Edberg, Fossati); i tanti consigli enogastron­omici; le nottate al Club Tenco. Gianni era un pantagruel­ico per Dna e per vocazione: un vorace prodigioso di cibo, vino e aneddoti. Risate, giochi di parole (adorava gli anagrammi) e vita vissuta. Incontrarl­o, soprattutt­o se eri a inizio corsa, significav­a ritrovarsi nel bel mezzo del paese dei balocchi. Provò anche ad aiutarmi a entrare in giornali “importanti”, e questo – in un settore di iene sceme & dinosauri efferati – era una rarità. Infatti posso dirlo solo di Marco ( Travaglio), Antonio (Padellaro), Edmondo (Berselli). E di Gianni. Poi, senza mai litigare, ci siamo persi di vista: la vita lo fa spesso. Anni fa mi raccontaro­no che Gianni si dispiaceva molto che fossi passato al Fatto: non era un giornale che amava. Non ho mai voluto indagare oltre: per me non cambiava niente. Maestro era stato e maestro sarebbe stato.

ORA CHE NON C’È PIÙ, lascia il vuoto che lasciano le anime salve. Leggerlo – in tivù no: mai andato granché d’accordo – significav­a anzitutto non sentirsi soli. Gianni era l’amico che ti raccontava quello che credevi di sapere già, solo che lui te lo raccontava molto meglio. Aveva lo sguardo buono dei burberi incazzosi, il nichilismo di chi al morire sani preferisce vivere malati e la penna di chi sapeva scorgere tracce vive di Pantadatti­lo negli scatti ascetici di Marco Pantani. È stato un gigante. Lo resterà.

Incontrarl­o, soprattutt­o se eri a inizio corsa, significav­a ritrovarsi nel bel mezzo del paese dei balocchi

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LaPresse Uno stile tutto suo Mura in una delle poche presenze tv
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