Era un pantagruelico, leggerlo significava non sentirsi soli
Le cene infinite, i consigli enogastronomici e le storie che tu sapevi già, ma che lui raccontava meglio
Gianni Mura era un talento puro e la sua idea di andarsene ieri a 75 anni è una delle poche che non mi è piaciuta. I suoi racconti dal Tour de France resteranno vette rare, e non solo quelli. Gianni aveva cuore, talento, ego, spigoli, genio e generosità. Per molti era “l’unico erede di Brera”. Lo pensava anche lo stesso Brera. Mura ne parlava con quell’affettuosa deferenza con cui si parla dei maestri. Eppure ho sempre pensato a Gianni (Mura) come solo e soltanto a Gianni (Mura): aveva il suo stile, la sua musica. La sua utopia. Per chi ha amato la letteratura sportiva, e per chi ha creduto anche in tempi non sospetti che lo sport potesse essere epica, Gianni è stato un amico. Un faro. Un compagno di strada e di sogni.
Due o tre vite fa ho avuto la fortuna frequentarlo. Mi telefonò un giorno d’autunno del 2003 e mi disse a bruciapelo: “Ho deciso di assegnarti il Premio Sporterme, perché sei il giornalista under 30 più bravo d’Italia”.
FU UNO DEI GIORNI più belli della mia vita, perché se me lo diceva lui allora forse un po’ era vero. Dopo la cerimonia a Bagno di Romagna, facemmo le sei del mattino a bere con Bruno Pizzul, Giovanni Galeone e altri pazzi. Fu una sorta di iniziazione per me e la mia ex moglie: o ricevevi (anzitutto da Gianni) la qualifica di “uno che sa reggere bene il vino”, o alla sua corte anarchico-etilica neanche potevi avvicinarti. Con lui, quando tutto funzionava, erano ore perfette. Le cene infinite – negli
slowfood che tiravano tardissimo a Milano, alle “Maschere” di Sarsina, “Da Maurizio” a Cravanzana in alta Langa – con sua moglie Paola, Luigi Bolognini, Gigi Garanzini, il vignaiolo Flavio Roddolo e chi aveva la fortuna di esserci; la sua prefazione al mio Canto
del cigno, nella quale mi rimproverava di innamorarmi sempre della “bellezza fredda”(Van Basten, Edberg, Fossati); i tanti consigli enogastronomici; le nottate al Club Tenco. Gianni era un pantagruelico per Dna e per vocazione: un vorace prodigioso di cibo, vino e aneddoti. Risate, giochi di parole (adorava gli anagrammi) e vita vissuta. Incontrarlo, soprattutto se eri a inizio corsa, significava ritrovarsi nel bel mezzo del paese dei balocchi. Provò anche ad aiutarmi a entrare in giornali “importanti”, e questo – in un settore di iene sceme & dinosauri efferati – era una rarità. Infatti posso dirlo solo di Marco ( Travaglio), Antonio (Padellaro), Edmondo (Berselli). E di Gianni. Poi, senza mai litigare, ci siamo persi di vista: la vita lo fa spesso. Anni fa mi raccontarono che Gianni si dispiaceva molto che fossi passato al Fatto: non era un giornale che amava. Non ho mai voluto indagare oltre: per me non cambiava niente. Maestro era stato e maestro sarebbe stato.
ORA CHE NON C’È PIÙ, lascia il vuoto che lasciano le anime salve. Leggerlo – in tivù no: mai andato granché d’accordo – significava anzitutto non sentirsi soli. Gianni era l’amico che ti raccontava quello che credevi di sapere già, solo che lui te lo raccontava molto meglio. Aveva lo sguardo buono dei burberi incazzosi, il nichilismo di chi al morire sani preferisce vivere malati e la penna di chi sapeva scorgere tracce vive di Pantadattilo negli scatti ascetici di Marco Pantani. È stato un gigante. Lo resterà.
Incontrarlo, soprattutto se eri a inizio corsa, significava ritrovarsi nel bel mezzo del paese dei balocchi