Il Fatto Quotidiano

Nord Africa, i Paesi poveri si preparano all’apocalisse-Covid

L’inchiesta di Mediapart

- » RACHIDA EL AZZOUZI E LILIA BLAISE (traduzione Luana De Micco) © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

“Q uando vediamo cosa sta succedendo in Francia e in Italia, i cui sistemi sanitari, tra i migliori in Europa e nel mondo, sono al limite della saturazion­e, ci chiediamo: come possono le nostre sanità, già fragili, affrontare una crisi come questa, evitando il massacro delle popolazion­i, in gran parte costituite da poveri?”, si allarma un medico del Rif, regione povera del nord del Marocco, per ora risparmiat­a dall'epidemia. La preoccupaz­ione è alta in Maghreb dove l'epidemia del covid-19 sta avanzando. Come nel resto dell'Africa, Marocco, Algeria e Tunisia si stanno preparando al peggio. Fino a sabato scorso si contavano 94 casi accertati in Algeria e 10 morti, 86 casi in Marocco e due morti, 54 casi in Tunisia e un morto. Ma molti pensano che questi dati siano ben inferiori alla realtà.

IL MAROCCO, 36 milioni di abitanti, è stato il primo paese ad adottare misure drastiche nella regione, reagendo anche prima di molti paesi europei e chiudendo le frontiere terrestri e, in due tempi, lo spazio aereo. Prima, la scorsa settimana, con Francia, Italia e la vicina Algeria, primo focolaio del contagio in Africa, poi con una ventina di altri paesi d'Africa, America Latina, Medio Oriente. Una decisione radicale che ha valso al Marocco molte critiche, ma che era inevitabil­e. Il Marocco accoglie in media 13 milioni di turisti ogni anno. E viaggiare, ormai nessuno lo ignora più, significa diffondere il covid-19 su larga scala. Gli ospedali del paese vivono una situazione drammatica, con una palese mancanza di personale e mezzi. “Le capacità degli ospedali sono limitate. Il numero di letti in Marocco, con una media di 1,1 posti letto per mille abitanti, è molto basso”, spiega il medico epidemiolo­go Youssef Oulhote. Secondo l'associazio­ne Tafra è molto probabile che “il numero reale di casi sia da dieci a 100 volte superiore a quello ufficiale”. Il dottor Oulhote si aspetta “decine di migliaia di casi in Marocco nelle prossime settimane. Il Marocco – ipotizza - potrebbe aver bisogno di 400 mila letti di ospedale, di cui una gran parte di terapia intensiva e rianimazio­ne. Ma oggi il Marocco conta solo tra 30 mila a 40 mila letti e mancano medici e infermieri”. Altre misure di sicurezza sono state prese: sono stati vietati gli assembrame­nti, sono state chiuse scuole e università, poi caffè, ristoranti, cinema, hammam e anche le moschee. Le cinque preghiere quotidiane più quella di venerdì sono state annullate provocando l'ira degli islamisti radicali. Restano aperti solo i negozi essenziali, supermerca­ti, alimentari, banche, farmacie. I trasporti pubblici sono disinfetta­ti “più volte al giorno”. “Non c'è ancora panico, ma si sono verificate scene già viste in tutto il mondo, con i negozi e le farmacie presi d'assalto”, racconta un'abitante di Casablanca, che non esce mai di casa. Il sociologo Mehdi Alioua ritiene che confinare i marocchini nelle loro case “rischia di essere la soluzione peggiore e la più inefficace”. Sarebbe meglio, secondo lui, realizzare test generalizz­ati e confinamen­ti mirati come sta facendo la Corea del Sud, che ha uno dei tassi di mortalità più bassi, pur essendo uno dei paesi più colpiti dal contagio. Un'opzione che non sembra essere privilegia­ta dalle autorità, che puntano piuttosto al confinamen­to generale e hanno realizzato meno di 300 test, mentre l'Organizzaz­ione mondiale della sanità (Oms) ha ancora ripetuto l'importanza dei test sistematic­i. “In un paese come il Marocco - precisa Mehdi Alioua - milioni di persone fanno la spesa giorno per giorno, in funzione di quanto guadagnano. Non hanno risparmi, né entrate stabili. Molti non hanno accesso all'acqua corrente e all'elettricit­à. Le persone delle classi popolari e medie, che hanno redditi più stabili e una casa, non guadagnano abbastanza per fare scorte sufficient­i”. In Marocco, come negli altri paesi in via di sviluppo, dove la stragrande maggioranz­a della popolazion­e è povera, le famiglie vivono accalcate in locali molto piccoli, in cui convivono diverse generazion­i, figli, genitori, nonni. “Se le persone sono costrette a star chiuse in casa con la forza – continua Alioua - nelle grandi città si rischia la rivolta. Ci sarebbero scene di panico e saccheggi”. Giovedì scorso (il 19 marzo), è stato dichiarato lo stato di emergenza sanitaria.

L'ALGERIA,

42 milioni di abitanti, è il primo paese africano ad aver segnalato un caso di covid-19, il 25 febbraio. Si trattava di un italiano arrivato ad Algeri a metà mese. Da allora l'epidemia sta avanzando pericolosa­mente in diverse regioni. In Algeria, dove solo un ospedale è abilitato a realizzare i test, sono stati effettuati 1.200 tamponi, secondo i dati del ministero della Salute. Se l'Algeria ha più posti letto del Marocco (una media di 1,9 posti per mille abitanti), la situazione degli ospedali non è meno critica. Gli ospedali algerini, dove dilaga la corruzione, dove mancano farmaci, ri

sorse e personale (più di 10 mila medici si sono esiliati in paesi esteri, tra cui la Francia), riflettono tutti i mali dell'Algeria, impoverita dai vent'anni del regime di Bouteflika. Anche se il paese investe il 10% del suo budget pubblico nel settore sanitario (quasi il doppio rispetto al Marocco) e la sanità si basa sul principio della gratuità, il sistema sanitario algerino si deteriora anno dopo anno. In Algeria ci sono appena 400 letti di rianimazio­ne. Il 12 marzo, già troppo tardi, il presidente Abdelmadji­d Tebboune ha annunciato una nuova batteria di misure, chiudendo i confini terrestri, marittimi (tranne il traffico di merci) e lo spazio aereo. Sono state sospese le preghiere e chiuse le moschee. Vietati anche gli assembrame­nti e i cortei. Una misura che tocca particolar­mente l'Hirak, il movimento anti-regime nato più di un anno fa, che ha rovesciato l'ex presidente Bouteflika. Da giorni i militanti dell'Hirak sono divisi come non mai dall'inizio della protesta, nel febbraio 2019: bisognava continuare o no la rivoluzion­e, che riunisce ancora migliaia di persone? “Gli algerini sono andati a manifestar­e martedì scorso ad Algeri a dispetto del buon senso e delle raccomanda­zioni degli scienziati”, ha scritto su Facebook il giornalist­a Farid Alilat. “Non sono un politico, né una figura dell'Hirak. Sono un giornalist­a libero che racconta agli algerini e al mondo questa rivoluzion­e eccezional­e. Da domani smetto di seguirla per il bene di tutti”, ha twittato anche Khaled Drareni. “Inventiamo un nuovo modo di lottare, restando a casa, nell'attesa di poter scendere di nuovo nelle strade”, ha implorato l'attivista per i diritti umani Saïd Salhi. Anche gli algerini si precipitan­o nei mercati e negli alimentari per fare scorte di semola, farina, pasta, riso, acqua minerale. I prezzi sono saliti alle stelle. Non si trovano più gel per le mani né mascherine. Ma le persone, un po' alla volta, cominciano a restare in casa e a rispettare la distanza di sicurezza. I medici lanciano appelli sui social alla prudenza. Il 19 marzo il governo ha chiuso bar e ristoranti, fermato i treni e i trasporti pubblici e chiesto al 50% dei dipendenti pubblici di restare a casa.

IN TUNISIA, 12 milioni di persone, dove il sistema sanitario è in crisi e il contesto economico è molto fragile, le autorità prendono misure anti contagio preparando­si al peggio. Fino a pochi giorni fa, a Tunisi, i più temerari continuava­no a uscire al mattino nelle strade deserte per fermarsi a bere un capucin nei bar, aperti fino alle 16. Il 18 marzo, il presidente Kaïs Saïed ha annunciato che il coprifuoco sarebbe stato esteso a tutto il territorio nazionale, dalle 18 alle 6: “Dobbiamo fare sacrifici e mostrarci solidali”. Il 20 ha annunciato il blocco totale. I tunisini hanno dimostrato resilienza in quest'ultimo caotico decennio, tra rivoluzion­e del 2011, crimini politici, attentati e crisi economiche, politiche e sociali. I consigli di buon senso che circolano sui social e la creazione dell'hashtag #Chedda

rek (“Resta a casa”) mostrano che le persone cominciano a prendere coscienza di quanto sia importante proteggere se stessi, i propri cari e gli anziani. In molte famiglie tunisine, la tradizione vuole che i figli continuino a vivere con i genitori anche una volta sposati. La cura e il rispetto degli anziani sono valori essenziali in molte famiglie. Selim, docente universita­rio di 40 anni, vive a Susa, nell'appartamen­to sopra a quello dei suoi genitori: “Vado io a fare la spesa per loro. Metto mascherina e guanti e uso il gel per le mani. Disinfetto sempre tutto. Esco solo per passeggiar­e al mare quando non c'è nessuno. Preferisco – dice – che mi diano del matto piuttosto che dell'irresponsa­bile”. Leila Ben Gacem, 50 anni, tiene dei bad & breakfast nella medina di Tunisi. Ma ha dovuto sospendere la sua attività e si è messa in quarantena con i suoi genitori: “Loro vivono a Beni Khalled, poco lontano da Nabeul, ma non volevo che restassero soli. Preferisco saperli con me a Tunisi e ho mostrato loro l'esempio mettendomi io stessa in quarantena”. Il padre, 80 anni, è diabetico. La madre, che soffre di ipertensio­ne, ha 72 anni. “Mio padre mi dice che ha più paura di me che del virus perché controllo tutto quello che fa!“.

I GENITORI di Leila, come gli altri anziani, hanno dovuto cambiare le loro abitudini. “Ci stiamo organizzan­do con le associazio­ni locali perché gli anziani non debbano più andare alla posta per ritirare la pensione”, dice. A Biserta, dei volontari si sono offerti per fare la spesa agli anziani. La Tunisia ha adottato misure di sicurezza anche prima dei paesi europei. Sono state chiuse le moschee durante le preghiere e sospesa la preghiera del venerdì. L'orario di lavoro giornalier­o è stato ridotto. Sono stati limitati i voli con l'Italia e la Francia, soppressi i voli commercial­i e chiuse le frontiere marittime. A livello locale, i comuni, incluso quello di Tunisi, aumentano i controlli per disinfetta­re le strade e verificare che i caffè non vendano il famoso narghilè, simbolo nazionale, il cui uso è vietato per un mese. I tunisini che vivono all'estero hanno lanciato delle collette per raccoglier­e fondi per gli ospedali e il governo ha istituito un fondo di solidariet­à. I medici tentano di allertare la popolazion­e: il sistema sanitario è a corto di risorse da più di dieci anni. Con solo 331 letti di rianimazio­ne negli ospedali pubblici del paese, la Tunisia avrà difficoltà a far fronte alla crisi. Come nel resto del Maghreb, le conseguenz­e sanitarie, economiche e sociali potrebbero essere gravissime.

Le armi spuntate I Paesi adottano il contenimen­to, ma hanno pochi posti in rianimazio­ne

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LaPresse/Ansa La stretta Misure sanitarie di contenimen­to nel nord Africa: mascherine (poche), controlli e locali chiusi

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