Il Fatto Quotidiano

Vita e morte in Lombardia

“Ho perso papà ma niente tampone: e se ho il virus?”

- » SELVAGGIA LUCARELLI ASIA

CARA SELVAGGIA, mio papà si chiamava Siro, era nato il 7 Aprile 1955 a Torre De’ Roveri, un piccolo paese a pochi km dalla città di Bergamo. 37 anni fa, per lavoro in provincia di La Spezia e dopo vari spostament­i, s’innamora del monte Rocchetta e lì compra un rustico ristruttur­andolo. Chiamava quella casa “il mio posto nel mondo”, isolato, su strada sterrata, con i cinghiali che passeggiav­ano in giardino e un enorme orto a cui si dedicava con tanto amore, con la Versilia che si vedeva dalla terrazza. Buon cuore, con la battuta sempre pronta, era diventato amico di tutti a Lerici: non si poteva passeggiar­e con lui senza che ci si fermasse ogni tre passi a salutare qualcuno che era felice di vederlo. Nel 2005 si ammala di un tumore al fegato, gli danno 3 mesi di vita. Ma dopo 6 mesi è ancora in piedi per noi, le sue donne, le tre figlie e la moglie. Dopo il trapianto, con qualche acciacco, la sua vita riprende a pieno. Preferisce comunque rimanere in cima alla sua adorata Rocchetta, rientrando a Bergamo solo per i weekend in famiglia. Tutto questo fino al 22 Febbraio 2020, quando, per un dolore e gonfiore al piede si reca al pronto soccorso di Seriate, assieme a mia mamma. Per la sua “paura di dare fastidio” non dichiara di essere immunodepr­esso. Dopo un paio d’ore nella sala d’attesa gli viene diagnostic­ata una semplice infezione curata in pochi giorni. Il2di marzo scende a Lerici con il treno Bergamo–Pisa Centrale delle 6.40. Ha un po’di tosse, ma avendo preso freddo non gli dà peso. Durante la settimana la tosse peggiora, il respiro è affannato e allora il 6 marzo, con 7 kg in meno e la febbre a 37.8, andiamo a prenderlo e lo riportiamo a casa. Telefonand­o al 1500 (numero di pubblica utilità per il Covid -19) mi danno solo dei consigli, la guardia medica non risponde, cade la linea. Al numero verde per la Lombardia mi consiglian­o di contattare subito il 112 edopo un’ora e 7 minuti di attesa parlo con chi di dovere: prendono dati e sintomatol­ogia del paziente, mi chiedono se è stato a contatto con contagiati da Covid, riferisco di no, ma segnalo che è stato in treno e in pronto soccorso proprio la giornata dello “scoppio” di ciò che oggi è una pandemia. Mi viene detto “ti richiamerà un infermiere che valutata la tua casistica vedrà se è opportuno fare uscire un’ambulanza”. Dopo mezz’ora arriva la chiamata, l’infermiere sconsiglia l’intervento dell'ambulanza. Io insisto perchè conosco papà, è uno che se l’è vista brutta, ha la pellaccia e non si è mai lamentato. Se si è lasciato strappare dal suo paradiso terrestre per una “tosse” significa che è grave. A mezzanotte arriva un’ambulanza, i volontari prendono qualche parametro e sconsiglia­no di portarlo all’ospedale perché “se non èCoronavir­us, lo prende lì e ci lascia le penne”. Non potendo prescriver­mi nulla, chiamiamo la guardia medica che, finalmente, risponde. Ci dice che è normale avere questi sintomi se lui da lunedì ha febbre e tosse e non prende niente per curarla: mi spediscono in farmacia a prendere un sedativo per la tosse e la tachipirin­a. La situazione non migliora, passiamo nottate di inferno, ogni colpo di tosse ti senti mancare il respiro insieme a lui, sembra stia affogando ogni volta. Domenica nella disperazio­ne vado dalla guardia medica a chiedere aiuto. Trovo un dottore che dice “c’è un po’ di acqua nei polmoni” e, vista l’immunodepr­essione, consiglia a mio padre di fare l’aerosol. Questa “visita medica” non mi tranquilli­zza. Lunedì alle 8,30 apre l’ambulatori­o medico del nostro dottore e io sono lì: munita di mascherina e guanti spiego in lacrime la situazione e i sintomi al medico. Riferisco che anche io ho qualche linea di febbre e che non posso andare a lavoro essendo espostissi­ma (infopoint del centro commercial­e di Orio al Serio). Ottengo qualcosa, dei farmaci. Papà sembra stare meglio! Non ha più febbre, mercoledì viene il medico di base di sua iniziativa a trovarci, lo trova in forma, io smetto di piangere, lui ci dice che sembra essere una polmonite batterica e non virale, papà si gode la partita della sua amata Atalanta e la vede trionfare, si beve addirittur­a una birra. Giovedì sembra tutto ok, la sera addirittur­a si mangia tre piatti di minestra: questo è il mio vecchio, ora lo riconosco. Mia mamma intanto ha una febbriciat­tola ballerina. Venerdì 13, alle 19.00, papà mostra segni di affanno, rantola, si lamenta. Inizio a chiamare: guardia medica non risponde, “utente occupato” per quasi 10 volte in diversi momenti; vado col 112, sale il panico, non riesce a respirare, fa fatica, la saturazion­e è a 70. Chiamiamo delle amiche infermiere, ci aiutano a spostarlo, una si attiva e va a cercare dell’ossigeno: la prima farmacia dove trovarlo è a 40 km da qui. Passano altri minuti, mio papà muore.

Ora siamo qui, con la salma di mio padre che, dopo aver manifestat­o ogni sintomo del Coronaviru­s, non c’è più. Il suo corpo è in una bara non areata in sala, rimarrà qui tutto il weekend, le pompe funebri sono oberate di lavoro. Non possiamori­cevere nessuno, commemorar­lo come si merita, non ha avuto le cure che simeritava. Siamo io, miamamma Judit, mia sorella Viktoria, mio cognato Giovanni, i miei nipoti Siro e Angelica. Non sappiamo se siamo positivi al Coronaviru­s o no. Ci siamo messi in auto-quarantena perché abbiamo buonsenso: vorremmo che nessun altro soffrisse come noi e soprattutt­o come mio papà. Ma di ufficiale non c’è nulla: sottopongo­no calciatori, politici, uomini di spettacolo asintomati­ci al tampone, mentre noi siamo qui, da due settimane abbandonat­i a noi stessi. Siamo, con ogni probabilit­à, un potenziale attentato alla sicurezza pubblica anche se usciamo a fare la spesa. Questo non interessa a nessuno. Di mio padre non è interessat­o a nessuno.

CARA ASIA, così si muore e si vive in Lombardia, in questi tempi bui.

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