Il Fatto Quotidiano

Diario di un milanese: canti e aperitivi in chat con l’ansia del contagio

- » NANDO DALLA CHIESA

LA PROPOSTA Celebrare gli “angeli” che hanno perso la vita in corsia intitoland­o a loro una piazza, una scuola, un ospedale

Casa mia. Milano. Quasi un mese di reclusione. Strana sensazione: stare dentro un incubo e scoprire via via che chi porta sciagure porta anche doni. Per quella ferrea legge della relatività. Le cose che ritrovano un valore alto, altissimo, prima mortificat­o, oscurato, dalla società dei consumi, o dall’abitudine alla sicurezza e alla libertà. Abbiamo riscoperto ad esempio, qualora ne avessimo perso di vista l’importanza, la sanità pubblica. Tornano ricordi di comizi lontani, inizio primavera nelle periferie milanesi.

ANNI NOVANTA, la gente che incitava a privatizza­re, togliere i legacci del pubblico a una società che doveva decollare anche nella sanità, scrollarsi di dosso quel sistema costosissi­mo che gravava sulle spalle del contribuen­te. E ora eccola, quando arriva il conto, la sanità pubblica con i suoi eroi, i turni infiniti e i medici che cadono sul campo. Nella mia attuale condizione di recluso penso che dovremmo ricordarci i loro nomi. Specie nel giorno in cui scrivo, 21 marzo, giornata della memoria delle vittime innocenti di mafia, credo anzi che i paesi e le città debbano intitolare anche a loro, caduti su un altro fronte, una piazza, una scuola, un ospedale. E poi, siccome la vita di recluso genera anche qualche fissazione, penso che dovremmo sapere pure i nomi dei 249 medici, tanti dicono che siano, che a Napoli si sono messi in malattia. Non credo siano gli unici, pare ci sia qualche caso perfino nel lodigiano. Ma converrete che 249, con la tragedia in corso, sono veramente un’immensità. Mi ha detto una studentess­a napoletana: ma se questa è una guerra, allora sono dei traditori della patria. Candore giovanile. Forse non l’avrei mai detto in questo modo. Ma condivido. E se qualcuno si sente colpito dalla generalizz­azione, perché davvero malato, se la prenda con i suoi colleghi che offrono numeri vertiginos­i (e vergognosi) che obbligano a generalizz­are.

Però voglio qui darvi una notizia bella, di quelle che in queste giornate si moltiplica­no, perché le reclusioni aumentano la voglia di sapere e far sapere, di vedere e far vedere cose belle. Dice la notizia che un’ex infermiera bresciana, addetta per 8 anni a un reparto di terapia intensiva, e poi partita per un master alla Bocconi e un’azienda di software sanitario, in questi giorni di dolore, davanti alle bare di Bergamo, ai numeri della Lombardia e della sua Brescia, ha deciso di tornare a Brescia a fare l’infermiera. Si chiama Silvia, ed è anche giovane vicesindac­o di Paratico, paese di 3mila abitanti.

VIVENDO SOLI a lungo, difficile non meditare anche su quel che abbiamo alle spalle, sui fili e sulle storie. Non ripassare volti sbiaditi. Ecco così arrivare telefonate da ex compagni di università, da amici lontani. Volersi ritrovare “a distanza”. Strano anche questo: più si è lontani, inaccessib­ili, più ci si sente vicini. Si sprecano caffè e aperitivi via skype. Ma sarebbe sbagliato pensare, non lo pensino nelle zone meno flagellate, che queste siano trovate estroverse, un divertirsi nell’incubo. Perché già iniziano a essere coinvolte famiglie che conosci. Lo zio di quello, gli zii di quegli altri, prima lei poi lui, morti all’insaputa l’un o dell’altro, sepolti senza funerali. No, non ci si diverte quando la morte fa sentire il suo alito sul collo, centinaia in un giorno solo in una città. Si saranno divertiti i giovani pimpanti che due settimane fa circa fecero a Palermo un corona-party pubblico ballando pigiati e divertiti (ma sì: i nomi, i nomi!, almeno degli organizzat­ori, così andranno di diritto nei film che un giorno raccontera­nno questa catastrofe che “è solo un’influenza”). Cercarsi in video, confeziona­rsi il sapore della leggerezza, è solo un modo per fuggire una manciata di minuti dalla consapevol­ezza che durerà, che le scuole forse non riaprirann­o, che la didattica a distanza durerà mesi, che non ci saranno viaggi estivi. Che la felicità sarebbero già le nostre strade. Che chissà quando arriverà un vaccino per tutti. Anche cantare dai balconi, più che un gioco, è un modo per darsi forza. Perché nell’animo di molti vedo un unico imperativo: fare l’impossibil­e per andare avanti con decoro nel proprio lavoro, difendere il Paese. Questo solca il nostro mare misto di paure e voglie di leggerezza, mentre la primavera, inconsapev­ole, mette fuori le sue gemme, che ci appaiono meraviglio­se. Segno di qualcosa che potrebbe essere e che non è. Di qualcosa che abbiamo visto per decenni provandone stupore incantato solo nell’infanzia. Ma torneranno i prati.

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LaPresse Sul balcone Cittadini intonano canzoni alla finestre durante la “reclusione” da Covid-19

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