È tempo dell’equinozio: festa sacra del neolitico che arriva fino a Lecce
Il 20 marzo è iniziata la primavera: un capodanno antico, festeggiato ancora oggi in Eurasia e nelle province del Sud Italia
Dall’istante dell’equinozio è cominciato il nuovo anno, ovvero Now–Ruz . È il Nuovo Giorno secondo il costume dei Padri e la vita che ricomincia – con la sconfitta dell’inverno e dell’Inferno – restituisce la gioia e la vittoria alla luce. La Cina e la Turchia attualmente proibiscono la celebrazione di questo capodanno. In nove nazioni dell’eurasia – capofila sono le tre di lingua persiana, Iran, Afghanistan e Tajikistan – è festa.
LE RADICI DI QUESTA SACRISSIMA solennità onorata da Zarathustra e istituita da Jamshid, il primo dei sovrani nello Shahnameh, intrecciano i destini di un unico popolo il cui sigillo è il fuoco e le cui scintille, ad Atene e così a Roma – ma anche nel pantheon indo-germanico – ornano l’attesa universale della primavera. Enea dalle torri di Ilio in fiamme, comandato dall’ombra di Ettore, si fa “profugo per fato” per innestare – al termine del suo viaggio – Troia a Roma. Il bottone giallo che in Albania tiene lontano il malocchio dalle culle è fuoco. E tutta l’Asia che è genitrice a noi, porta dagli albori dell’umano il fragore accecante del giallo: il paese dell’oro. Erodoto porta in Europa il racconto del Tibet: la terra della preziosa polvere che s’accumula in forma di cime abbaglianti. Il luccicante metallo è estratto dalle proprie tane da formiche giganti, i cunicoli si allungano fino all’alta valle dell’Indo i cui pozzi auriferi, secoli dopo, troveranno Odorico da Pordenone quale stupefatto cronista.
La forma dell’inchiostro non si rivela se non nelle lettere. Nella catena del logos, di goccia in goccia, in questa o in quella lettera si svela ancora una volta l’inchiostro. Giunge Now-Ruz, un avvento di cui si ha menzione dal neolitico, e i missionari cristiani come Giovanni da Pian del Carpine, assistono alla danza del Chaharshambè Surì: descrivono fastosi fuochi e sette salti intorno ad essi per recitare “il tuo rosso a me, il mio giallo a te”. La memoria del popolo – come a Novoli (Lecce), con la Fòcara per Sant’Antonio Abate – ancora oggi custodisce questo culto per interposta confessione e su un altro calendario ma, appunto, sono raggi di una stessa luce.
Ci tiene il broncio, il sole, quando sente venire meno il nostro omaggio. Ogni alba se ne sta svestita – coi piedi dentro la tinozza – in licenziosa promessa, per una nuova vita, e ogni ardore è atteso per preservare il cosmo. Il fuoco è un re cui è dovuto un trono e l’onore proprio dei sovrani. Quando nel 1976 gli inglesi lasciano lo Yemen anche i parsi, arrivati nell’Ottocento con i britannici, se ne vanno portandosi via anche il loro il fuoco.
“Il fuoco migrante di una comunità migrante”, scrive Neil MacGregor in Vivere con gli déi, “si era trasferito”. La scena è già la sceneggiatura di un film: un Boeing 707 è attrezzato per trasportare la fiamma viva; l’equipaggio, tutto parsi, è inviato ad Aden da Air India, la compagnia aerea della famiglia Tata, di confessione parsi e così il fuoco – il sacrissimo Atash – atterra a Mumbai, all’epoca ancora chiamata Bombay.
IL ROSSO E IL GIALLO, allora: tanta di quella salute per scacciare per sempre la malattia; ed è tutto dell’amore per annientare l’odio. Nel “tu” e“io” di ogni danza, nell’accomunarsi del “noi” nella vita c’è l’auspicio di compiere la fusione. Il fiore sbocciato nel giardino è il fuoco. Di quale desiderio possa poi essere il desiderio, lo svela l’amore nel momento in cui l’amante – nella brama – diventa l’amato. Non c’è fusione più ardente dell’essere-due nell’Unico. L’unico augurio dell’unico sole di un unico popolo.