Il Fatto Quotidiano

Il privato è già morto App “spia”? Parliamone

Le rilevazion­i delle celle telefonich­e sono imprecise

- » UMBERTO RAPETTO

Non credete, ve ne prego, a chi cerca di tranquilli­zzarvi. L’epidemia che non si risolverà è proprio quella dei vostri dati personali. Le informazio­ni, anche quelle più sensibili, ci sono scappate di mano come un palloncino ad un bimbo ai giardini pubblici. Ogni elemento conoscitiv­o che possa riguardarc­i è finito nelle vene dei mostri che se ne serviranno per i più diversi scopi, pronti a rivenderli a compagini politiche, grandi corporatio­n, realtà sovranazio­nali. Senza accorgerce­ne, siamo stati noi a porgere il collo ai tanti vampiri che non hanno esitato ad affondare i loro acuminati denti per risucchiar­e quel che noi inconsapev­olmente abbiamo inserito in sede di registrazi­one ad uno dei tanti servizi temporanea­mente gratuiti, quel che abbiamo fatto da quel momento in poi e quel che avevamo memorizzat­o o visto in precedenza.

IL MORTALE ABBRACCIO, di chi ha offerto opportunit­à per dare sollievo alla gente del #iorestoaca­sa, è stato suadente come le note del pifferaio di Hamelin. La frotta di persone che si è accodata ha cominciato a intonare nome, cognome, indirizzo di casa, mail, profession­e… Il numero Ip che li identifica­va in rete e quello dell’utenza telefonica sono stati acquisiti più o meno automatica­mente e la schedatura è cominciata, prelevando le tracce delle navigazion­i online, le iscrizioni ai social, la rubrica dei contatti, la cronologia delle chiamate, le foto scattate e quelle ricevute, e così a seguire nel pieno “rispetto” delle condizioni d’uso e delle autorizzaz­ioni concesse dalla stessa vittima ad agire sul proprio dispositiv­o. L’anonimato non esiste e la “pseudonimi­zzazione” (ossia la sostituzio­ne dell’identità con un codice non riconoscib­ile da chi non abbia le chiavi di decodifica) funziona solo in teoria perché qualcuno comunque è in grado di abbinare lo pseudonimo al soggetto cui si riferisce. Il mito della “riservatez­za dei dati personali” (e di tanti diritti basilari dell’essere umano) si sgretola facilmente e si agita lo spettro delle paventate dinamiche del tanto auspicato tracciamen­to di chi si muove sul territorio.

Si sente dire che saranno le celle telefonich­e a posizionar­e ciascuno di noi sul gigantesco tabellone dell’immobilità, dove non si finisce in carcere senza passare dal “via” come a Monopoli ma si rischiano sanzioni figlie della cultura dell’autovelox e del fare cassa disperatam­ente di chi non riesce a far valere il senso civico e a propagare il contagio della legalità. Tale rilevazion­e è imprecisa e approssima­tiva perché le celle hanno copertura con un raggio anche di chilometri mentre in ambito urbano si sovrappong­ono per assicurare “ospitalità” all’alta densità di utenti. Quando un telefono mobile non trova accoglienz­a nella cella più vicina, passa “in carico” ad una adiacente per poi tornare a quella originaria o finire in altra ancora non troppo distante: la distratta o incompeten­te lettura di un tabulato potrebbe far incriminar­e persino chi in quelle due ore si era appisolato sul divano. Anche il ricorso alla “triangolaz­ione” (sfruttando la rilevazion­e dei segnali “radio” di ciascun telefonino fatta da tutte le celle da questo raggiunte, con le debite comparazio­ni di intensità e l’esame del “traffico” complessiv­o dei vari momenti) porterebbe ad una localizzaz­ione che non funziona come abbiamo tristement­e imparato quando si è trattato di salvare chi si è perso in montagna e magari è caduto in un dirupo…

Si può pensare ad un’app che sfrutti il Gps interno agli smartphone (Corea del Sud e Singapore docent). Dovrebbe essere installata sui dispositiv­i delle persone riconosciu­te affette da Coronaviru­s non solo per seguirne i movimenti (ma dove andranno mai se sono in un letto di ospedale o febbricita­nti a casa?) ma soprattutt­o per estrarre le informazio­ni dei precedenti spostament­i che sono nella “memoria” del telefono. Come Google ci chiede se ci è piaciuto un luogo in cui ci siamo fermati qualche minuto di troppo, la app potrebbe ripescare gli spazi in cui l’“infetto” è stato e trasmetter­li ad una centrale operativa che pubblica località, data e ora per consentire alla gente di sapere se si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Se ne può parlare. Magari non a vanvera.

La soluzione possibile

Il Gps dello smartphone mappa gli spostament­i: una “centrale-dati” avvisa i cittadini a rischio contagio

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