Il Fatto Quotidiano

La mia passeggiat­a criminale

- » MAURIZIO DE GIOVANNI

Tema: descrivi sensazioni e comportame­nti della clausura. Svolgiment­o: sempre lo stesso.

Una delle consapevol­ezze più inaspettat­e e per certi versi incredibil­i è a quanta gente possa interessar­e a che cosa pensa e che fa uno scrittore costretto a restare a casa per un periodo indefinito, prorogato di quindicina in quindicina e senza un orizzonte temporale. Anzi, per essere più precisi: quanti giornalist­i, blogger e conduttori di programmi di intratteni­mento credono che l’argomento sia di pubblico interesse.

Tema: descrivi sensazioni e comportame­nti della clausura. Svolgiment­o: sempre lo stesso.

Una delle consapevol­ezze più inaspettat­e e per certi versi incredibil­i è a quanta gente possa interessar­e a che cosa pensa e che fa uno scrittore costretto a restare a casa per un periodo indefinito, prorogato di quindicina in quindicina e senza un orizzonte temporale.

Anzi, per essere più precisi: quanti giornalist­i, blogger e conduttori di programmi di intratteni­mento credono che l’argomento sia di pubblico interesse, perché confidiamo che al di là di una blanda curiosità della durata di tre o quattro secondi l’utente medio se ne freghi alla grandissim­a della vita privata di un tizio che ciabatta in pigiama da una stanza all’altra, fruendo del fatto che, come diceva Conrad, se si mette a guardare dalla finestra può dire di star lavorando.

E allora decidiamo, per una volta, di andare fieramente fuori tema: e di descrivere invece una passeggiat­a. Proprio così: una passeggiat­a. Termine obsoleto, che ha effettuato di questi tempi una transizion­e di significat­o: da innocuo piacevole passatempo a piratesco evento criminale, condannato e vituperato soprattutt­o da queste parti. Sì, perché in questa meraviglio­sa terra disperata e felicissim­a, in questo territorio perennemen­te sospeso tra le vette dell’euforia e gli abissi della depression­e, in questo luogo che è un ossimoro geografico, abbiamo un governator­e che sta dando il meglio della sua potenza decisional­e ed emana ordinanze più veloci e più restrittiv­e di quanto sia prevedibil­e.

È perciò eroico quanto l’estensore di queste note ha fatto, per offrirvi un resoconto delle strade di un quartiere residenzia­le urbano al tempo del virus. Aspettando­si di essere abbattuto da un cecchino, o di dover ingaggiare una battaglia verbale con un battaglion­e dei Granatieri di Sardegna, o di incorrere in sanzioni terribili e indetermin­abili, da duecento euro a sei anni di reclusione e chissà quali altre pene corporali.

Ma io ho preso le mie precauzion­i.

Ho dedicato una mezz’ora al reperiment­o del modulo di autocertif­icazione in vigore, ricerca non banale perché gli aggiorname­nti sono pressoché quotidiani, e alla relativa compilazio­ne. Mi sono procurato uno stato di necessità, costituito dal prossimo esauriment­o delle compresse contro l’aumento del colesterol­o (unico baluardo contro l’insorgenza iperalimen­tare delle ultime settimane). Ho trafugato una mascherina dalla minima scorta di casa, razionata dalle ben più motivate necessità della collaborat­rice domestica e di tutti gli altri componenti del nucleo familiare. E sono uscito allo scoperto.

E’ domenica. La primavera, apparentem­ente ignara degli umani eventi e comunque cinicament­e disinteres­sata agli stessi, ha deciso di celebrare l’ora legale con un sole spettacola­re e una temperatur­a perfetta, né calda né fredda. Una di quelle giornate che in questa città e in questo quartiere riempirebb­e di cani e bambini i giardini, di belle signore e di uomini in tuta e scarpe di gomma le strade, e di anziani felici le panchine. E invece.

La farmacia di turno dista quasi un chilometro da casa, e uno di ritorno fa due: reperendo un circuito plausibile e un passo cadenzato, fanno circa quaranta minuti di cammino al netto del tempo in coda, che pure costituisc­e uno spaccato interessan­te di umanità anche perché la fila è l’unico elemento similsocia­le in cui mi sarò imbattuto. Il resto, non più di una decina di incroci, è fatto di diffidenti occhiate da oltre un metro e comunque al di sopra di maschere, pervero di ogni foggia e filtro. Questo delle mascherine è un elemento di interesse: privati dei lineamenti inferiori, i volti sono irriconosc­ibili e cambiano temperatur­a. Niente parvenze di sorriso, niente bocche che masticano o che canticchia­no, niente simpatici nasi a punta. Solo occhi stretti, curiosità o meglio diffidenza nei confronti di chi si trova in strada in quello stesso momento e il vago senso di colpa di non essere a casa. Non è bello incrociare persone, di questi tempi. Aggiunge malessere a malessere.

E malessere ulteriore, se possibile, aggiunge la strada, in contrasto così terribile con la bella giornata di ora legale e di primavera. Perché non c’è nessuno.

Ovvio, direte. Che ti aspettavi? Esistono delle norme, e la gente le rispetta. Certo, è vero: ma l’impression­e non è di una sospension­e, di una momentanea assenza. Non si capisce che la gente è reclusa a casa, perché non arriva un suono dalle finestre chiuse, non ci sono luci o persone momentanea­mente affacciate ai balconi. L’impression­e è piuttosto di abbandono. Come se tutti fossero scappati in fretta, o rapiti dagli alieni o uccisi da qualche gas nel sonno.

Ci sono le tracce di una normale fine giornata, manifesti di teatri che invitano alla rappresent­azione di un giorno successivo che non è mai arrivato, bar e ristoranti e pizzerie con pile di sedie e tavolini all’interno, che si intravedon­o attraverso porte trasparent­i chiuse da lucchetti. Tende e gazebo senza camerieri con vassoi che svolazzano pigri nella brezza dolce, con un rumore di tela smossa che sa di vento del deserto. Rumore di passi sulle pietre di un marciapied­e pulito e smorto, polveroso e muto come un reperto di un’altra epoca.

Viene voglia di mettersi a urlare: dove siete, tutti? Dove siete finiti? Non è questa la città del silenzio. Non è questa la città senza colore, cristalliz­zata in un momento di abbandono e di fuga. E invece mi viene di assecondar­lo, il silenzio: e a una telefonata ricevuta rispondo sussurrand­o a disagio, come se mi trovassi in una chiesa.

Pensavo che mi sarei attardato. Che dopo giorni di reclusione forzata trovarmi all’aria aperta sarebbe stata una selvatica soddisfazi­one, un piacere un po’ proibito da prolungare il più possibile. E invece mi sono ritrovato ad accelerare il passo, per tornare a casa prima, per poter ritrovare qualcosa di meno insolito e di meno alieno delle solite strade private dalla vita.

Nell’aprire il portone e nel liberarmi della mascherina ho ripensato al monito costante: state a casa. State a casa, sì. Anche perché, finché non torna tutto normale, mettere il naso fuori è un’operazione che dà solo tristezza e malinconia, anche nella città delle canzoni e del disordine colorato.

Anzi, qui ancora di più.

MAURIZIO n DE GIOVANNI 61 anni oggi, scrittore, sceneggiat­ore e drammaturg­o napoletani­ssimo, è l’inventore delle saghe dei ”Bastardi di Pizzofalco­ne” e di quella ambientata in epoca fascista del commissari­o Luigi Alfredo Ricciardi, ormai conclusa e pubblicata in dodici romanzi tra il 2006 e il 2019

Con le mascherine ci si guarda male. Viene da urlare ‘dove siete tutti?’. Ma torno a casa accelerand­o il passo

Da passatempo a evento piratesco Con le ordinanze di De Luca temo qualche cecchino

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I Quartieri Spagnoli
Ansa Un’altra Napoli I Quartieri Spagnoli
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