La mia passeggiata criminale
Tema: descrivi sensazioni e comportamenti della clausura. Svolgimento: sempre lo stesso.
Una delle consapevolezze più inaspettate e per certi versi incredibili è a quanta gente possa interessare a che cosa pensa e che fa uno scrittore costretto a restare a casa per un periodo indefinito, prorogato di quindicina in quindicina e senza un orizzonte temporale. Anzi, per essere più precisi: quanti giornalisti, blogger e conduttori di programmi di intrattenimento credono che l’argomento sia di pubblico interesse.
Tema: descrivi sensazioni e comportamenti della clausura. Svolgimento: sempre lo stesso.
Una delle consapevolezze più inaspettate e per certi versi incredibili è a quanta gente possa interessare a che cosa pensa e che fa uno scrittore costretto a restare a casa per un periodo indefinito, prorogato di quindicina in quindicina e senza un orizzonte temporale.
Anzi, per essere più precisi: quanti giornalisti, blogger e conduttori di programmi di intrattenimento credono che l’argomento sia di pubblico interesse, perché confidiamo che al di là di una blanda curiosità della durata di tre o quattro secondi l’utente medio se ne freghi alla grandissima della vita privata di un tizio che ciabatta in pigiama da una stanza all’altra, fruendo del fatto che, come diceva Conrad, se si mette a guardare dalla finestra può dire di star lavorando.
E allora decidiamo, per una volta, di andare fieramente fuori tema: e di descrivere invece una passeggiata. Proprio così: una passeggiata. Termine obsoleto, che ha effettuato di questi tempi una transizione di significato: da innocuo piacevole passatempo a piratesco evento criminale, condannato e vituperato soprattutto da queste parti. Sì, perché in questa meravigliosa terra disperata e felicissima, in questo territorio perennemente sospeso tra le vette dell’euforia e gli abissi della depressione, in questo luogo che è un ossimoro geografico, abbiamo un governatore che sta dando il meglio della sua potenza decisionale ed emana ordinanze più veloci e più restrittive di quanto sia prevedibile.
È perciò eroico quanto l’estensore di queste note ha fatto, per offrirvi un resoconto delle strade di un quartiere residenziale urbano al tempo del virus. Aspettandosi di essere abbattuto da un cecchino, o di dover ingaggiare una battaglia verbale con un battaglione dei Granatieri di Sardegna, o di incorrere in sanzioni terribili e indeterminabili, da duecento euro a sei anni di reclusione e chissà quali altre pene corporali.
Ma io ho preso le mie precauzioni.
Ho dedicato una mezz’ora al reperimento del modulo di autocertificazione in vigore, ricerca non banale perché gli aggiornamenti sono pressoché quotidiani, e alla relativa compilazione. Mi sono procurato uno stato di necessità, costituito dal prossimo esaurimento delle compresse contro l’aumento del colesterolo (unico baluardo contro l’insorgenza iperalimentare delle ultime settimane). Ho trafugato una mascherina dalla minima scorta di casa, razionata dalle ben più motivate necessità della collaboratrice domestica e di tutti gli altri componenti del nucleo familiare. E sono uscito allo scoperto.
E’ domenica. La primavera, apparentemente ignara degli umani eventi e comunque cinicamente disinteressata agli stessi, ha deciso di celebrare l’ora legale con un sole spettacolare e una temperatura perfetta, né calda né fredda. Una di quelle giornate che in questa città e in questo quartiere riempirebbe di cani e bambini i giardini, di belle signore e di uomini in tuta e scarpe di gomma le strade, e di anziani felici le panchine. E invece.
La farmacia di turno dista quasi un chilometro da casa, e uno di ritorno fa due: reperendo un circuito plausibile e un passo cadenzato, fanno circa quaranta minuti di cammino al netto del tempo in coda, che pure costituisce uno spaccato interessante di umanità anche perché la fila è l’unico elemento similsociale in cui mi sarò imbattuto. Il resto, non più di una decina di incroci, è fatto di diffidenti occhiate da oltre un metro e comunque al di sopra di maschere, pervero di ogni foggia e filtro. Questo delle mascherine è un elemento di interesse: privati dei lineamenti inferiori, i volti sono irriconoscibili e cambiano temperatura. Niente parvenze di sorriso, niente bocche che masticano o che canticchiano, niente simpatici nasi a punta. Solo occhi stretti, curiosità o meglio diffidenza nei confronti di chi si trova in strada in quello stesso momento e il vago senso di colpa di non essere a casa. Non è bello incrociare persone, di questi tempi. Aggiunge malessere a malessere.
E malessere ulteriore, se possibile, aggiunge la strada, in contrasto così terribile con la bella giornata di ora legale e di primavera. Perché non c’è nessuno.
Ovvio, direte. Che ti aspettavi? Esistono delle norme, e la gente le rispetta. Certo, è vero: ma l’impressione non è di una sospensione, di una momentanea assenza. Non si capisce che la gente è reclusa a casa, perché non arriva un suono dalle finestre chiuse, non ci sono luci o persone momentaneamente affacciate ai balconi. L’impressione è piuttosto di abbandono. Come se tutti fossero scappati in fretta, o rapiti dagli alieni o uccisi da qualche gas nel sonno.
Ci sono le tracce di una normale fine giornata, manifesti di teatri che invitano alla rappresentazione di un giorno successivo che non è mai arrivato, bar e ristoranti e pizzerie con pile di sedie e tavolini all’interno, che si intravedono attraverso porte trasparenti chiuse da lucchetti. Tende e gazebo senza camerieri con vassoi che svolazzano pigri nella brezza dolce, con un rumore di tela smossa che sa di vento del deserto. Rumore di passi sulle pietre di un marciapiede pulito e smorto, polveroso e muto come un reperto di un’altra epoca.
Viene voglia di mettersi a urlare: dove siete, tutti? Dove siete finiti? Non è questa la città del silenzio. Non è questa la città senza colore, cristallizzata in un momento di abbandono e di fuga. E invece mi viene di assecondarlo, il silenzio: e a una telefonata ricevuta rispondo sussurrando a disagio, come se mi trovassi in una chiesa.
Pensavo che mi sarei attardato. Che dopo giorni di reclusione forzata trovarmi all’aria aperta sarebbe stata una selvatica soddisfazione, un piacere un po’ proibito da prolungare il più possibile. E invece mi sono ritrovato ad accelerare il passo, per tornare a casa prima, per poter ritrovare qualcosa di meno insolito e di meno alieno delle solite strade private dalla vita.
Nell’aprire il portone e nel liberarmi della mascherina ho ripensato al monito costante: state a casa. State a casa, sì. Anche perché, finché non torna tutto normale, mettere il naso fuori è un’operazione che dà solo tristezza e malinconia, anche nella città delle canzoni e del disordine colorato.
Anzi, qui ancora di più.
MAURIZIO n DE GIOVANNI 61 anni oggi, scrittore, sceneggiatore e drammaturgo napoletanissimo, è l’inventore delle saghe dei ”Bastardi di Pizzofalcone” e di quella ambientata in epoca fascista del commissario Luigi Alfredo Ricciardi, ormai conclusa e pubblicata in dodici romanzi tra il 2006 e il 2019
Con le mascherine ci si guarda male. Viene da urlare ‘dove siete tutti?’. Ma torno a casa accelerando il passo
Da passatempo a evento piratesco Con le ordinanze di De Luca temo qualche cecchino