Il Fatto Quotidiano

Razza predona

- » MARCO TRAVAGLIO

Anche se ogni tanto litighiamo, sono un po’ amico di Massimo Giannini, specialmen­te da quando fu cacciato dalla Rai dell’Innominabi­le e lo difesi. E ieri il suo editoriale su La Stampami ha fatto male. Non per me, che non c’entro niente. Per lui. Dopo mezza vita passata a denunciare giustament­e i conflitti d’interessi politico-affaristic­o-editoriali di B., ora tenta di negare il conflitto d’interessi politico-affaristic­o-editoriale dei suoi editori Agnelli-Elkann. E, così, senza volerlo, lo conferma. Diversamen­te da B, la Real Casa torinese non ha mai avuto bisogno di entrare direttamen­te in politica: fin dalla fondazione oltre un secolo fa, è sempre stata “governativ­a per definizion­e”, come diceva il capostipit­e Giovanni Agnelli. Perché ha sempre avuto ai suoi piedi quasi tutti i governi, convinti – anche in cambio di tangenti e buona stampa – che “quel che va bene alla Fiat va bene all’Italia” (Gianni Agnelli). E infatti anche La Stampa, salvo rare parentesi, è sempre stata governativ­a. Almeno fino a due anni fa, quando andarono al governo due partiti – 5Stelle e Lega – troppo selvaggi per piacere ai soliti salotti, anche se poi Salvini vi è stato subito cooptato. Intanto la Real Casa si comprava pezzo dopo pezzo pure Repubblica, fino alla brutale cacciata di Carlo Verdelli e all’arrivo di Maurizio Molinari, sostituito a La Stampa da Giannini.

Così il giornale più vicino al Pd è passato all’opposizion­e del governo che ha riportato al potere il Pd, insieme al quotidiano governativ­o per definizion­e. Il tutto mentre l’editore incassava da Banca Intesa un assegno di 6,3 miliardi garantiti dallo Stato grazie al dl Liquidità dell’orribile governo Conte. Il vicesegret­ario del Pd Orlando ha fatto due più due, come chiunque osservi i movimenti dei grandi gruppi finanziari ed editoriali: lorsignori, con i loro media al seguito, non ne hanno mai abbastanza e ora vogliono rovesciare il governo per spartirsi comodament­e gli 80 miliardi delle due manovre anti-Covid e quelli in arrivo dall’Ue. Nessuno ha mai parlato di ”complotto” o “congiura”, termini evocati da Giannini (che tira in ballo financo gli odiatori di Liliana Segre e di Silvia Romano) e da quel furbacchio­ne di Mieli per ridicolizz­are un tema serissimo: qui si tratta di interessi economici, che sarebbero legittimi se non usassero i media per i propri comodi. Conte, pur tutt’altro che ostile alle imprese, è inviso all’e stablishme­nt lobbistico-finanziari­o perché non è un premierà la carte (come lo erano quasi tutti i predecesso­ri). E per giunta non è stato scelto dai soliti noti, ma nientemeno che da quei barbari dei 5Stelle. Pussa via.

Infatti viene attaccato ogni giorno con pretesti ridicoli (gli orari e la punteggiat­ura delle conferenze stampa) e fake news (nulla a che vedere con la legittima critica) da tutti i grandi quotidiani, fino all’altroi eri sdraiati su governi infinitame­nte peggiori. “Nessuno ci ha mai ordinato alcunché”, “i giornalist­i non prendono ordini dall’editor e”, giura Giannini. Non ne dubitiamo: certe cose non c’è neppure bisogno di ordinarle. Si fanno col pilota automatico, conoscendo i desiderata dell’editore. Che, quando è vero, ha il solo interesse di vendere i giornali. Ma, quando è finto o “impuro”, usa la stampa per fare affari anche tramite la politica. Vale per gli Elkann, Caltagiron­e, gli Angelucci, Cairo e anche i De Benedetti. Quando scoppiò lo scandalo della soffiata dell’Innominabi­le all’Ingegnere sul dl Banche, Repubblica non scrisse una riga: censura dell’editore o autocensur­a dei giornalist­i? E le recenti cronache da Coppa Cobram fantozzian­a dei due giornali della megaditta sul prestito garantito a Fca erano frutto di ordini superiori o di spontanee obbedienze inferiori?

La Razza padrona descritta da Scalfari prim’ancora di fondare Repubblica e poi di venderla a CdB, non è un’invenzione. Giannini assicura che questa è “un’idea rozza” che “non esisteva neanche negli anni 50, quando a Torino la Fiat e il Pci costruivan­o la trama delle relazioni industrial­i del Paese”. Sarà, ma allora e anche molto dopo la Fiat (“la Feroce”) aveva “r ep a rt i confino”, schedava gli operai per le loro idee e, quando ne moriva uno in fabbrica, La Stampa, sotto dettatura della capufficio­stampa Fiat, tota Rubiolo, scriveva che era “deceduto in ambulanza nel trasporto in ospedale”. Negli anni 90 era cambiato il mondo, ma quando sul Giornale mi azzardai a raccontare il processo sulle tangenti Fiat, il condiretto­re Federico Orlando fu convocato in corso Marconi da Agnelli e Romiti, che gli chiesero di non farmi più scrivere. Montanelli pregò Orlando di non dirmelo neppure e continuai a scrivere liberament­e. Un anno dopo, siccome perseverav­o, il capufficio stampa Fiat mi convocò per minacciare di stroncarmi la carriera. Me ne fregai, ma solo perché non lavoravo per giornali Fiat. Ne Il Provincial­e, Giorgio Bocca racconta un aneddoto su un dirigente Fiat che rende bene l’idea:“Mi trovai in una villa del Monferrato in casa di un dirigente che un po’ brillo abbracciav­a alle spalle la sua tota segretaria e le diceva in piemontese: ‘Ninìn, lo senti l’acciaio?’. E lei brancicava nei suoi pantaloni con una mano, senza girarsi...”. Ecco, oggi la sede legale è in Olanda. Ma l’acciaio è sempre lì dietro, in Italia.

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