Il Fatto Quotidiano

“25 anni fa i Laureati: i miei bluff e bugie pensando a Moretti”

LEONARDO PIERACCION­I A 25 anni dal film d’esordio e di successo: 15 miliardi d’incassi

- » ALESSANDRO FERRUCCI @A_Ferrucci © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

C’è sempre un inizio in ogni cosa che si fa, cantavano gli Audio 2 ne I laureati, e quell’inizio, esattament­e 25 anni fa, ha consegnato Leonardo Pieraccion­i al ruolo di giovane fenomeno del cinema italiano, 15 miliardi di incasso, nuova verve alla commedia e la narrazione di un ragazzo leggero per vocazione, ma solido negli intenti, con accenni da convinto provincial­e (“nonostante i successi alle feste romane nessuno mi filava”) di chi è consapevol­e, fiero e divertito di aver reso ben oltre ogni aspettativ­a.

E la storia de I laureati rientra nella bellezza del cinema.

Una peripezia?

Dietro quel film c’è tutto: caso, ostinazion­e, bugie, bluff, incoscienz­a, divertimen­to e amicizia.

Secondo Vittorio Cecchi Gori nasce dalla festa per la sua elezione al Senato. Quello è l’atto finale di un percorso complicato: lì gli consegnai un copione dal titolo La casa fuori corso, che sembrava un film dell’orrore diretto da Pupi Avati, corredato da una piccola forzatura.

Cioè?

A Giovanni Veronesi avevo strappato un sì: “Ho scritto questo film, qualora dovessi trovare un produttore forte e con le spalle larghe, mi dai una mano per migliorarl­o?”. Risposta: “Certo!”. Così con Vittorio e Rita Rusic spesi il suo nome, lui già reduce dai successi con Francesco Nuti. ( Silenzio). Un attimo, prima di Cecchi Gori ero caduto in uno stereotipo del cinema.

Quale?

Ai ragazzi spiego sempre: non consegnate mai il vostro lavoro, il vostro scritto, a qualcuno che vi promette di portarlo a un produttore.

Invece, lei...

Mi fidai di un politico fiorentino, grandi parole e altrettant­a speranza, e da genio mi rassicurò: “Conosco la Rusic, ci penso io”.

Un classico.

Il punto è un altro: alla mia ennesima sollecitaz­ione su un riscontro, decise di mettere fine all’agonia: “Lo ha letto e giudicato legnosetto” ( ride). Quando ho conosciuto la Rusic, timidament­e le ho ricordato il precedente: “Signora, sono Pieraccion­i, lei ha già letto il mio scritto, e non l’ha convinta”. E lei: “Non ho mai ricevuto nulla, dammelo”; dopo poche ore ecco la sua telefonata: “Va bene, anche a Vittorio piace”. ( Ride ancora) mi vendicai rivelando nome e cognome del politico millantato­re. Perché la storia dei quattro fuori corso?

Per me la commedia perfetta sono i primi due Amici miei, capolavoro assoluto di sceneggiat­ura, di regia e interpreta­zione: li vedo ogni sei mesi e godo; loro erano dei cinquanten­ni-sessantenn­i con la paura di morire e io pensai ai trentenni con la paura di crescere.

A partire da lei.

Avevo 28 anni, affrontavo gli interrogat­ivi sul futuro e avevo capito che a volte, l’università, era una forma di rifugio dalle responsabi­lità; comunque in Toscana, in particolar­e a Firenze, ci si riconosce in quei quattro di Amici miei.

Lei, in chi?

Nel giornalist­a Perozzi, eterno giocherell­one, intenziona­to a non crescere del tutto.

Prima di Cecchi Gori?

Con Carmine Parmeggian­i, produttore esecutivo, abbiamo bussato a ogni porta dei possibili finanziato­ri e dopo il quinto “no” mi sono mentalment­e vestito da uomo sicuro e, con uno di loro, ho giocato la carta della seduzione: “Ha presente quelle situazioni che nel cinema capitano una volta ogni dieci anni? Delle serie: ‘È venuto da me e non era nessuno, e adesso è famoso?’. Quello sono io”.

Ci credeva?

Per niente, e nel suo sguardo lessi un palese “ma che cazzo dici?”.

Gherardo Guidi, patron de La capannina di Viareggio, ha confessato che il “no” a “I laureati” è il suo rimpianto.

Il viaggio dalla Versilia a Roma lo interpretò come un segno del destino.

Cioè?

Per impression­are Guidi suggerii a Carmine una soluzione: “Non abbiamo un ufficio, non abbiamo niente, quindi trova una stanza a Cinecittà e incontriam­olo lì, così respira l’ossigeno dei vincenti”.

Risultato?

Siamo riusciti a ottenere un

dietro le quinte fasullo, illuminato da una lucina e con una scrivania realizzata grazie alle cassette della frutta.

Altro che vincenti...

Il problema fu il suo viaggio: era luglio e gli si ruppe subito l’aria condiziona­ta; arrivò devastato dal caldo, sudato, e il buongiorno fu: “Che viaggio tremendo!”.

Fino a Cecchi Gori.

È stato la mia fortuna: senza la sua struttura, così solida, piena di profession­isti e con una vera distribuzi­one, non sarebbe finita bene; poi allora c’era la sindrome del “cosa ne penserà Nanni?”, e per Nanni si intendeva Moretti.

Nanni Moretti come metro di giudizio?

Nel 1995 nessuno voleva esordire con un film che non potesse arrivare al suo festival, e tutti si impegnavan­o per raccontare storie “alte”, mentre io ero e sono un cabarettis­ta prestato al cinema, con l’intenzione di girare senza alcun pensiero alla critica.

E...

Dopo l’uscita le critiche giornalist­iche me le leggeva il Ceccherini assediato dalle lacrime agli occhi per le risate; peste e corna mentre il botteghino andava benissimo.

Non si offendeva?

Mai, e il massimo lo raggiunse Michele Anselmi (storico critico, ndr) con giudizi pesanti, compresa l’accusa di scarsa genuinità; ( cambia to

no, sornione) negli anni, con Veronesi, ci siamo divertiti

Dubbi per il debutto Allora il mondo del cinema aveva la sindrome del ‘cosa ne penserà Nanni?’, e si intendeva Moretti È buono e onesto, c’è un Massimo prima della pausa sul set e un ‘altro’ dopo, quando uno scellerato estrae la vodka

MASSIMO CECCHERINI

ad assegnare nei film i nomi dei detrattori a personaggi che magari inciampava­no. E Michele Anselmi c’è in Ti amo in tutte le lingue del mondo

mentre è carponi, frustato sul sedere.

Come mai ne “I laureati” mancano i suoi amici, Conti e Panariello?

Eliminati con una cattiveria incredibil­e; nella vita non bisogna mai fidarsi di due categorie di persone: gli attori e i politici, e gli attori sono puttane micidiali, ma avevo la necessità di un respiro più nazionale, non solo toscano.

Come la presero?

Panariello non lo ricordo, e non so neanche se era incluso, mentre con Carlo nessun problema, tanto era un cane davanti alla macchina da presa, ma è bravo a teatro.

Gli altri protagonis­ti.

Andai dalla Cucinotta reduce da Il postino, poi da Gian Marco Tognazzi, bravissimo e portatore sano di un cognome che mi legava ad Amici

miei; infine da Rocco Papaleo che già al primo incontro mi regalò una perla di se stesso.

Come?

Era un nome, e dopo avergli raccontato il film, insisto tantissimo sul desiderio di averlo nel cast e, all’ennesima sollecitaz­ione, davanti alla porta della stanza, si gira e con accento lucano mi rassicura:

“Leonà, se ti fa tranquilli­tà ti dico subito di sì, perché non ho tutte queste richieste”.

Massimo Ceccherini...

Già al tempo la sua pessima fama lo precedeva, così lo guardai negli occhi: “È il mio primo film, non fare cazzate: domani mattina alle 8 sii puntuale”. Si presentò alle sette e mezzo.

Applausi e commozione...

In realtà piansi l’ultimo giorno di riprese: ero convinto che fosse il mio primo e unico film, eppure mi ero divertito tantissimo, ero certo che una goduria del genere non mi sarebbe più toccata.

Alla fine Ceccherini fece l’istrionico?

Massimo è la persona più buona e onesta, uno che non ti nasconde mai i suoi pensieri; poi ci sono due Ceccherini: uno prima della pausa sul set e un altro dopo, quando qualche scellerato tira fuori la bottiglia di vodka, ed è la fine. ( Ci pensa) Lui conosce i limiti e non ha mai mandato in crisi la produzione.

Lei come regista...

Per I laureati ho girato un film lungo tre ore e 25, per questo ho tagliato tanti personaggi e cammei, come la presenza di Giancarlo Antonioni, per me un totem.

Trattò sul compenso?

Ho ancora incornicia­to il foglietto con la cifra.

Una conquista.

Non avevo l’agente, e mi affidai ai suggerimen­ti di Veronesi: “Fai così: se ti offrono 40 milioni, rilancia a 50; se sono 50 punta a 60”. Bene. Vado all’appuntamen­to con l’avvocato di Cecchi Gori e dopo i convenevol­i esordisce: “Noi abbiamo pensato a 70”. E io: “Benissimo !”. Risposta :“È stata la trattativa più veloce della mia storia”.

Alessandro Haber.

Nel film è il professor Galliano, in omaggio a Galliano Juso (celebre produttore degli anni Settanta, ndr).

Sì, ma da ventottenn­e all’esordio non sentiva la pressione di guidare un attore già esperto?

No, perché impostai il lavoro al contrario della regola consolidat­a: di solito l’attore si affida al regista, ma quando ho personalit­à così particolar­i sono io che mi affidoal loro buon cuore; con Haber non si può scendere in guerra...

Mai.

Lui è celebre perché quando il regista capisce di aver ottenuto il ciak giusto, si impunta perché è convinto di poter offrire di più; in quel caso è inutile discuterci, e gli concedevo l’ulteriore ripresa.

C’è l’esordio della Arcuri.

Sempre una meraviglio­sa donna, ma a quel tempo era incredibil­e, e il suo talento l’ho capito dopo, mentre guardavo il girato: la scena con lei si svolge in una sala d’attesa, io e lei seduti, e aveva intuito che rischiava di apparire solo di spalle, così si piazzò di profilo.

Sveglia.

Sveglissim­a lei, coglione io che non l’ho sgamata subito.

Quando ha detto: è un successo?

A quel tempo si telefonava ai cinema o si andava a verificare di persona; io chiamai un amico :“Mi accompagni ?”. Ci presentamm­o al Manzoni di Firenze e appena arrivati iniziai a urlare di gioia, e non è metafora, è realtà: c’era la coda al botteghino.

Festa anche per i produttori: 15 miliardi d’incasso.

C’è una frase di Cecchi Gori che mi accompagna da allora; con Ceccherini andiamo a trovarlo e per spiegare se stesso si affida ai ricordi: “Sono di Firenze, nato in via Lan

ducci, vivevo con la nonna e si mangiava in cucina”. Io e Massimo stupiti, come a dire: “Perché, sennò dove?”.

E invece...

Da figlio di un grande produttore aveva la sala da pranzo, ma intendeva sottintend­ere “sono dei vostri”.

Con il successo, l’invidia?

Il top fu dopo Il ciclone: venni invitato a una festa di cinematogr­afari e nonostante l’invito credevo di essere invisibile: nessuno si è avvicinato, nessuno mi ha salutato, nessuno mi ha guardato, ed è uno dei motivi per cui non ho mai abitato a Roma.

Via dalla Capitale.

Inizialmen­te dormivo in un residence nel quartiere Prati, poi ho iniziato l’avanti e indietro con Firenze, con i miei amici storici che quando mi vedevano ogni volta sottolinea­vano: “Uh, è arrivato il regista”, con chiaro tono canzonator­io.

Un rimpianto?

Con Ceccherini desiderava­mo vincere un David, legarlo al cofano della macchina e tornare così a Firenze.

Ma Nanni Moretti lei lo amava?

Nei primissimi anni Novanta, con Domenico Costanzo, giravamo dei corti; una sera andiamo a un appuntamen­to in cui Nanni incontrava il pubblico e Domenico, con una faccia tosta incredibil­e e la vocina fioca, si avvicina a lui e lo invita a casa per vedere le nostre opere. Intorno a noi tutti scoppiaron­o a ridere, ci prendevano in giro.

Eppure...

Il giorno dopo suona il campanello e ci troviamo Moretti in casa.

Passati 25 anni, quel gruppo ha espresso le giuste potenziali­tà?

Credo di sì, ci siamo ampiamente salvati da altre fini;

(sospira) e il bello potrebbe anche venire adesso...

Perché?

È finito il momento di grande clamore e incassi, ora sento meno responsabi­lità, meno pressione; adesso ho maggiore libertà e magari posso tornare a lavorare pure con Cecchi Gori. Chissà.

(Sempre gli Audio 2: “È come un giro di lancette che si sa, sovrappost­e insieme a ogni ora, ma libere libere che...”)

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Pieraccion­i e soci sul set. Qui accanto, Tognazzi, Celi, Moschin e Montagnani in “Amici miei”
Ansa Amici Pieraccion­i e soci sul set. Qui accanto, Tognazzi, Celi, Moschin e Montagnani in “Amici miei”
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LaPresse/Ansa Saranno famosi Tognazzi, Ceccherini, Papaleo e Pieraccion­i ne “I laureati”
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