Il Fatto Quotidiano

La strage silenziosa nei macelli di carne del Nord America

Inchiesta di Mediapart sulle migliaia di contagi

- » OLIVIER MONNIER (traduzione Luana De Micco)

Hiep Bui era arrivata in Canada come rifugiata dopo la guerra del Vietnam. Viveva con il marito nella provincia dell'Alberta (nell'ovest del paese), dove ha lavorato in uno stabilimen­to di macellazio­ne per 23 anni. Durante la pandemia, ha continuato a recarsi tutti i giorni nella cella frigorifer­a: ritirava le ossa dalla carne macinata destinata a fare gli hamburger. Un venerdì di aprile, mentre era al lavoro, si è ammalata. In un primo tempo ha pensato che fosse un'influenza, invece era il Covid-19: è morta due giorni dopo, a 67 anni. Il macello in cui Hiep Bui lavorava, nei pressi di High River (sud dell'Alberta), appartiene alla multinazio­nale degli Stati Uniti Cargill. È uno dei più grandi impianti di lavorazion­e di carne bovina del Canada, con 2 mila dipendenti e una capacità di 4.500 capi di bestiame al giorno. Poiché la filiera della carne è stata dichiarata dal governo settore essenziale, lo stabilimen­to è rimasto aperto a metà marzo mentre il resto dell'economia si fermava. Ma la situazione sanitaria dell'impianto è sfuggita rapidament­e di mano. Il primo caso di Covid-19 è stato confermato il 6 aprile. Due settimane dopo se ne contavano diverse centinaia e Cargill è stato costretto a sospendere l'attività per due settimane. In tutto, quasi mille lavoratori – la metà dei dipendenti - sono stati infettati. La maggior parte di loro ora sta bene. Due sono morti.

IL CASOdella Cargill nell'Alberta è particolar­mente significat­ivo, ma non è stato il solo. In tutto il nord America, dozzine di stabilimen­ti per la macellazio­ne della carne, manzo e maiale soprattutt­o, sono diventati nelle ultime settimane dei focolai epidemici, costringen­do i giganti del settore a chiudere temporanea­mente alcune delle loro fabbriche o a ridurre il ritmo della produzione, facendo temere una carenza nell'approvvigi­onamento della carne. In Canada, secondo il Factory Farm Collective, 2.200 lavoratori di 28 macelli sono risultati positivi al nuovo coronaviru­s dall'inizio dell'epidemia e cinque sono morti. Sempre nell'Alberta, più di 600 operai dello stabilimen­to JBS Canada, filiale del colosso brasiliano JBS, sono stati infettati. Il Food and Environmen­t Reporting Network (FERN) ha stimato che circa 200 impianti per la lavorazion­e della carne e di prodotti alimentari trasformat­i degli Stati Uniti hanno registrato dei casi di Covid-19. Più di 17 mila lavoratori sono risultati positivi. Al 20 maggio, si contavano almeno 70 morti. Molteplici fattori fanno di queste fabbriche dei luoghi particolar­mente a rischio in periodo di pandemia.

In nord America c'è una vasta concentraz­ione di fabbriche di carne, impianti gigantesch­i basati nelle aree rurali che impiegano un gran numero di operai. Lo stabilimen­to di High River, a un'ora d'auto da Calgary, rappresent­a oltre un terzo della lavorazion­e di carni bovine di tutto il Canada. Gli spazi comuni, come gli spogliatoi e le mense, sono affollati durante le pause.

Gli operai lavorano fianco a fianco, soprattutt­o lungo la catena di produzione in cui la carne viene tagliata e imballata. “È stato fatto il possibile per rendere queste fabbriche sempre più efficienti. Un gran numero di persone lavorano in condizioni di promiscuit­à. È un terreno fertile per i virus”, ha spiegato Mike von Massow, docente presso il dipartimen­to di Agricoltur­a dell'Università di Guelph, in

Ontario. Secondo lui, queste fabbriche non erano pronte a gestire una pandemia. Ad High River, i lavoratori accusano Cargill di aver reagito e preso le misure di sicurezza troppo tardi. Secondo il quotidiano The Globe and Mail, che ha portato avanti una lunga inchiesta sul tema, solo a metà aprile, ovvero un mese dopo l'entrata in vigore delle misure di contenimen­to dell'epidemia in Canada, è diventato obbligator­io indossare la mascherina all'interno dello stabilimen­to e sono stati installati dei pannelli di plastica lungo la catena di produzione per distanziar­e i lavoratori.

CYNTHIA, originaria delle Filippine, ha lavorato nello stabilimen­to di High River per nove anni insieme al marito. Lei era nella “kill floor”, il locale per la macellazio­ne, lui alla catena di produzione. Ad aprile sono risultati entrambi positivi al Coronaviru­s e da allora sono in quarantena. “La maggior parte dei colleghi che si sono ammalati lavorano nella produzione. All'inizio, non veniva applicata alcuna misura di distanziam­ento sociale. Le persone continuava­no a lavorare fianco a fianco - ha spiegato Cynthia -. Solo i responsabi­li indossavan­o le mascherine. Erano gli unici ad essere protetti”.

Da parte sua, Cargill sostiene di aver “agito presto e rapidament­e”, sin dai primi di marzo, per introdurre i nuovi protocolli. “Gli standard evolvono continuame­nte in funzione dell'evoluzione dell'epidemia e via via impariamo nuovi metodi per proteggere i nostri dipendenti”, ha osservato il portavoce dell'azienda, Daniel Sullivan.

Gli spazi collettivi sono stati dunque riorganizz­ati, sono state introdotte delle misure di protezione all'interno dei luoghi di produzione e fissati degli orari scaglionat­i per le pause. A un certo punto si è cominciata anche a misurare la temperatur­a degli operai all'ingresso della fabbrica. Per alcuni queste misure di sicurezza sono arrivate troppo tardi. Dopo aver sospeso l'attività per 15 giorni, l'impianto ha riaperto le porte il 4 maggio con l'introduzio­ne di regole ancora più strette. Il sindacato United Food and Commercial Workers (Ufcw), che rappresent­a i 2 mila operai della fabbrica, si è opposto alla ripresa del lavoro, chiedendo l'apertura di un'inchiesta: “Non siamo degli ingenui”, ha detto Michael Hughes, il portavoce locale del sindacato. Le autorità provincial­i, che in un primo tempo erano state accusate di aver ignorato le preoccupaz­ioni del sindacato e gli appelli a chiudere l'impianto, hanno dato il via libera all'inchiesta. La fabbrica ora funziona al 60% della sua capacità. Gli operai, compreso il marito di Cynthia, hanno paura di tornare al lavoro. “La situazione è molto tesa - osserva Michael Hughes -. Gli operai sono nervosi. La loro è una posizione difficile: anche se hanno paura, devono lavorare”.

Una settimana dopo la riapertura, hanno appreso della morte di un altro collega, Benito Quesada, messicano, che era stato ricoverato in ospedale ad aprile. Aveva 51 anni. Come Quesada molti operai dei macelli e degli impianti di lavorazion­e della carne del nord America sono immigrati o lavoratori stranieri stagionali. Nello stabilimen­to di High River rappresent­ano il 90% della mano d'opera. Provengono principalm­ente dalle Filippine, ma anche dall'Africa, dal sud-est asiatico o dal Messico. “Fanno il lavoro che nessuno vuole fare”, spiega Ricardo Morales della Calgary Catholic Immigratio­n Society, che aiuta gli immigrati nella regione. Il lavoro è difficile e sottopagat­o. “Nessuno sogna di lavorare in un macello. Non è un lavoro piacevole, fa freddo, è umido, c'è sangue dappertutt­o. È anche un lavoro ripetitivo”, riassume il professor Mike von Massow. Per Ricardo Morales anche il contesto sociale da cui gli operai provengono li rende più vulnerabil­i all'epidemia. Molti di loro parlano poco o male l'inglese e più famiglie vivono nella stessa abitazione. Fattori sicurament­e aggravanti ma, agli occhi dei lavoratori, troppo spesso avanzati da Cargill e dalle autorità per giustifica­re la gravità del contagio. Per Alex Shevalier, presidente del Consiglio del lavoro di Calgary, la crisi del Covid-19 ha rivelato la dura realtà di questa filiera. “Il lavoro degli operai non viene valorizzat­o. Come stupirsi che ci siano tanti contagi! Non dipende solo da come questi impianti sono stati progettati. È anche una questione di gestione a livello delle direzioni”.

A High River, diversi operai hanno rivelato al Globe and Mail e alla radio Cbc di aver ricevuto pressioni da parte dei loro datori di lavoro. Alcuni sostengono di aver avuto l'autorizzaz­ione dei medici a continuare a lavorare nonostante i sintomi, altri sono stati costretti a tornare in fabbrica prima della fine del periodo di quarantena. Un bonus di 500 dollari è stato promesso a marzo agli operai che non avrebbero perso neanche un giorno di lavoro su un periodo di otto settimane: per il sindacato, un “incoraggia­mento” a lavorare anche in caso di malattia. A questo proposito, i vertici di Cargill sostengono di essere stati “molto chiari”: i dipendenti malati non erano autorizzat­i a recarsi sul posto di lavoro. “I nostri dipendenti sono stati considerat­i lavoratori essenziali. La loro sicurezza - ha precisato Daniel Sullivan - è la nostra priorità”.

Cynthia la pensa diversamen­te: “Non gli importa nulla di noi. Ci trattano come se fossimo delle m ac ch in e”. “Le fabbriche non hanno nessuna intenzione di ridurre la produzione - aggiunge Michael Hugues -. A loro basta cha qualcuno lavori, non importa chi. Basta che la carne arrivi sugli scaffali, il prodotto passa prima del lavoratore”. Di fronte ai timori di carenze, ammette il sindacalis­ta, la filiera ha subito pressioni importanti da parte dei produttori e dei consumator­i.

ALLA FINEdi aprile, il presidente americano Donald Trump ha ordinato ai macelli di restare aperti per garantire l'approvvigi­onamento della carne. Il Canada ha stanziato 77 milioni di dollari per aiutare la filiera a migliorare la sicurezza sul posto di lavoro. La maggior parte degli impianti che hanno dovuto chiudere, sono stati riaperti sulla base di protocolli più rigidi. Eppure, pur ritrovando­si in prima linea, i lavoratori della carne restano invisibili, mentre altri vengono celebrati come eroi in Canada e altrove. “È un settore che si conosce poco. Nessuno vuole sapere da dove provengono il manzo o il maiale che mangiamo né cosa succede nei mattatoi”, conclude Mike von Massow. Il professore ritiene tuttavia che l'epidemia di Covid-19 possa indurre l'industria della carne a cambiare: “Questa crisi ha rivelato i problemi del settore. Spero che i consumator­i, più consapevol­i, saranno più attenti in futuro non solo a come gli animali vengono allevati, ma anche a come vengono trasformat­i e all'impatto che il sistema ha sui lavoratori”.

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Sono migliaia gli stranieri costretti in filiera, ammassati, senza protezioni E sotto ricatto

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La strage da Covid negli impianti di lavorazion­e carne del Nord America. Decine di migliaia i contagiati
LaPresse Epidemia La strage da Covid negli impianti di lavorazion­e carne del Nord America. Decine di migliaia i contagiati

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