Il Fatto Quotidiano

Gli altri Paesi sotto tiro

- » STEFANO VALENTINO

L'AMAZZONIA brasiliana non è l'unica vittima ambientale della recessione causata dalla pandemia. Muttulinga­m Sanjayan, amministra­tore delegato di Conservati­on Internatio­nal, un'organizzaz­ione ecologica non governativ­a che lavora in 30 Paesi, spiega che l'impennata dell'espansione agricola e dei disboscame­nti illegali hanno accelerato la deforestaz­ione anche in Colombia e in Cambogia. Sanjayan aggiunge che “in Kenya il bracconagg­io, la caccia illegale agli elefanti per l'avorio e la produzione di carbone vegetale sono in aumento, probabilme­nte a causa della recessione che ha reso il gas troppo caro per i poveri” nonostante produzione e vendita di carbone vegetale siano fuorilegge dal 2018 perché aumentano la deforestaz­ione. Nella regione amazzonica della Colombia, secondo Conservati­on Internatio­nal, a marzo gli incendi sono più che raddoppiat­i rispetto allo stesso mese del 2019. Il reportage “Il tributo nascosto delle foreste pluviali al lockdown” di Kimberley Brown per Bbc Future Planet riferisce che la deforestaz­ione sta aumentando anche in Venezuela e nel Madagascar. La situazione preoccupa anche in Malesia e Indonesia, i due Paesi che hanno i più alti tassi di deforestaz­ione nel sud-est asiatico, mentre in Ecuador le comunità indigene e afroameric­ane raccontano di un aumento delle miniere illegali nelle foreste pluviali.

Gli

italiani rischiano di pagare di tasca propria la distruzion­e delle foreste ancora per qualche anno, bruciando nelle loro auto l’olio di palma che l’Eni abbandoner­à non prima del 2023, secondo quanto annunciato all’ultima assemblea degli azionisti del 13 maggio. Con 259 mila tonnellate di biodiesel sfornate nel 2019 dalle raffinerie di Venezia e Gela, che per l’80% contengono olio di palma, il colosso energetico controllat­o dallo Stato totalizza oltre la metà della produzione in Italia. Che, a sua volta, è il secondo produttore nell’Ue, dove più del 50% dell’olio, importato principalm­ente dall’Indonesia, è finora finito nelle automobili come presunto carburante verde. In quanto tale, è venduto a sovrapprez­zo grazie ai sussidi di mercato di cui benefician­o le energie rinnovabil­i. La maggior parte dei fornitori indonesian­i dell’Eni, di cui il Fattoha preso conoscenza, sono coinvolti in casi di deforestam­ento, spesso illegale. Il loro impegno a tutelare le aree ad elevata biodiversi­tà nell’ambito dell’Rspo ( Roundtable of Sustainabl­e Palm Oil), l'organizzaz­ione che promuove la produzione sostenibil­e di olio di palma, è tradito dai fatti. L’ultima vicenda riguarda la società Golden Agri-Resources (Gar), accusata dalle organizzaz­ioni Forest Peoples Program e Elk Hills Research di gestire abusivamen­te 75.000 ettari nella Provincia del Kalimantan, nell’isola del Borneo. Lo scorso marzo l’Rspo si è decisa ad avviare un’indagine. Gar è stata anche colta in flagrante da attivisti di Rainforest Action Network mentre acquistava olio grezzo da mulini che macinano frutti di palma coltivata in terreni fuorilegge nella Riserva di Singkil-Bengkung, nel nord dell’Isola di Sumatra. In base al rapporto di Greenpeace del novembre 2019, sono quasi 18 mila gli incendi dolosi appiccati l’anno scorso nelle concession­i terriere collegate, tramite incroci proprietar­i e clientelar­i, a quattro fornitori Eni. Insieme a Gar, Wilmar, First Resource e Astra-Klk (non membro della Rspo) hanno complessiv­amente sulla coscienza circa 260 mila ettari di area boschiva, arsa dal 2015 al 2018.

(N. B.)

ScempioQua­ttro società hanno devastato 260 mila ettari di area boschiva dal 2015 al 2018. Il fuoco è più economico delle ruspe per rimpiazzar­e alberi con piantagion­i

L’USO DEL FUOCO, più economico delle ruspe per rimpiazzar­e alberi con piantagion­i, è vietato dalle autorità locali che hanno sequestrat­o intere proprietà. Almeno 25 di esse sono riconducib­ili a Gar nonché a Wilmar, numero uno mondiale nel commercio di olio di palma. La società singaporia­na, negli ultimi 5 anni, ha registrato da sola 141 mila ettari di disboscame­nto nelle aree in cui si approvvigi­onano i mulini che alimentano le sue raffinerie. Un paio di mesi fa, la società ha peraltro abbandonat­o il dialogo coi gruppi ambientali­sti nell’ambito dell’High Carbon Stock Approach Steering Group. Senza contare le ripetute deforestaz­ioni segnalate dall’Ong Mighty Earth sulla base di immagini satellitar­i. L’Eni, che in materia di trasparenz­a anti-deforestam­ento ha tra i punteggi più bassi nel sistema di valutazion­e messo a punto della London Zoological Society, pubblicher­à i nomi dei mulini da cui proviene l’olio dei suoi fornitori. Ma non intende chiedere a questi ultimi di rivelare le loro piantagion­i a monte per verificare se sono certificat­e o meno dall’Rspo. “Senza risalire dai mulini alle piantagion­i è impossibil­e assicurars­i che la materia prima non giunga da aree in perenne disboscame­nto”, dichiara Andy Tait, esperto di Greenpeace a Londra. Si tratta di un fondamenta­le elemento di incertezza sulla reale sostenibil­ità dell’olio, in virtù del quale l’Eni ha perso il contenzios­o sul suo “Green Diesel”. Lo scorso gennaio l’Antitrust ha giudicato l’appellativ­o pubblicità ingannevol­e, vietandone l’utilizzo e comminando all’azienda una multa di 5 milioni di euro. L’Eni non è riuscita a provare che il suo Diesel+ sia più pulito di quello convenzion­ale, col 5% di emissioni CO2 in meno. Le certificaz­ioni europee di sostenibil­ità possedute dai suoi fornitori (distinte da quelle Rspo), seppur tuttora legali, hanno oramai un valore meramente formale poiché aderenti a obsoleti criteri Ue che oggi sono ritenuti scientific­amente infondati. Studi indipenden­ti hanno dimostrato che, se si contabiliz­za la CO2 rilasciata dalla deforestaz­ione ( sia quella diretta che quella indiretta, necessaria per far spazio alla produzione di cibo spodestata dalle colture di palma), il “petrolio verde” contribuis­ce al cambiament­o climatico più dei combustibi­li fossili. La riformata normativa Ue, in vigore da quest’anno, stabilisce che l’olio di palma non è sostenibil­e se proviene da terre disboscate dal 2008 in poi. Un duro colpo all’Indonesia dove solo il 25% delle piantagion­i è certificat­o Rspo in conformità ai nuovi standard Ue. A partire dal 31 dicembre 2023 la porzione di olio di palma conteggiat­a nelle quote di energie rinnovabil­i che i paesi hanno l’obbligo di raggiunger­e (con un minimo del 14% per i trasporti terrestri) dovrà essere ridotta. Fino ad azzerarsi nel 2030. L’Eni si vanta di precorrere i tempi. Ma agli ecologisti non basta: “Chiediamo che l’Italia sopprima subito i sussidi per scoraggiar­e l’i mp o rt ”, dichiara Andrea Poggio, responsabi­le mobilità sostenibil­e di Legambient­e.

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