Gli altri Paesi sotto tiro
L'AMAZZONIA brasiliana non è l'unica vittima ambientale della recessione causata dalla pandemia. Muttulingam Sanjayan, amministratore delegato di Conservation International, un'organizzazione ecologica non governativa che lavora in 30 Paesi, spiega che l'impennata dell'espansione agricola e dei disboscamenti illegali hanno accelerato la deforestazione anche in Colombia e in Cambogia. Sanjayan aggiunge che “in Kenya il bracconaggio, la caccia illegale agli elefanti per l'avorio e la produzione di carbone vegetale sono in aumento, probabilmente a causa della recessione che ha reso il gas troppo caro per i poveri” nonostante produzione e vendita di carbone vegetale siano fuorilegge dal 2018 perché aumentano la deforestazione. Nella regione amazzonica della Colombia, secondo Conservation International, a marzo gli incendi sono più che raddoppiati rispetto allo stesso mese del 2019. Il reportage “Il tributo nascosto delle foreste pluviali al lockdown” di Kimberley Brown per Bbc Future Planet riferisce che la deforestazione sta aumentando anche in Venezuela e nel Madagascar. La situazione preoccupa anche in Malesia e Indonesia, i due Paesi che hanno i più alti tassi di deforestazione nel sud-est asiatico, mentre in Ecuador le comunità indigene e afroamericane raccontano di un aumento delle miniere illegali nelle foreste pluviali.
Gli
italiani rischiano di pagare di tasca propria la distruzione delle foreste ancora per qualche anno, bruciando nelle loro auto l’olio di palma che l’Eni abbandonerà non prima del 2023, secondo quanto annunciato all’ultima assemblea degli azionisti del 13 maggio. Con 259 mila tonnellate di biodiesel sfornate nel 2019 dalle raffinerie di Venezia e Gela, che per l’80% contengono olio di palma, il colosso energetico controllato dallo Stato totalizza oltre la metà della produzione in Italia. Che, a sua volta, è il secondo produttore nell’Ue, dove più del 50% dell’olio, importato principalmente dall’Indonesia, è finora finito nelle automobili come presunto carburante verde. In quanto tale, è venduto a sovrapprezzo grazie ai sussidi di mercato di cui beneficiano le energie rinnovabili. La maggior parte dei fornitori indonesiani dell’Eni, di cui il Fattoha preso conoscenza, sono coinvolti in casi di deforestamento, spesso illegale. Il loro impegno a tutelare le aree ad elevata biodiversità nell’ambito dell’Rspo ( Roundtable of Sustainable Palm Oil), l'organizzazione che promuove la produzione sostenibile di olio di palma, è tradito dai fatti. L’ultima vicenda riguarda la società Golden Agri-Resources (Gar), accusata dalle organizzazioni Forest Peoples Program e Elk Hills Research di gestire abusivamente 75.000 ettari nella Provincia del Kalimantan, nell’isola del Borneo. Lo scorso marzo l’Rspo si è decisa ad avviare un’indagine. Gar è stata anche colta in flagrante da attivisti di Rainforest Action Network mentre acquistava olio grezzo da mulini che macinano frutti di palma coltivata in terreni fuorilegge nella Riserva di Singkil-Bengkung, nel nord dell’Isola di Sumatra. In base al rapporto di Greenpeace del novembre 2019, sono quasi 18 mila gli incendi dolosi appiccati l’anno scorso nelle concessioni terriere collegate, tramite incroci proprietari e clientelari, a quattro fornitori Eni. Insieme a Gar, Wilmar, First Resource e Astra-Klk (non membro della Rspo) hanno complessivamente sulla coscienza circa 260 mila ettari di area boschiva, arsa dal 2015 al 2018.
(N. B.)
ScempioQuattro società hanno devastato 260 mila ettari di area boschiva dal 2015 al 2018. Il fuoco è più economico delle ruspe per rimpiazzare alberi con piantagioni
L’USO DEL FUOCO, più economico delle ruspe per rimpiazzare alberi con piantagioni, è vietato dalle autorità locali che hanno sequestrato intere proprietà. Almeno 25 di esse sono riconducibili a Gar nonché a Wilmar, numero uno mondiale nel commercio di olio di palma. La società singaporiana, negli ultimi 5 anni, ha registrato da sola 141 mila ettari di disboscamento nelle aree in cui si approvvigionano i mulini che alimentano le sue raffinerie. Un paio di mesi fa, la società ha peraltro abbandonato il dialogo coi gruppi ambientalisti nell’ambito dell’High Carbon Stock Approach Steering Group. Senza contare le ripetute deforestazioni segnalate dall’Ong Mighty Earth sulla base di immagini satellitari. L’Eni, che in materia di trasparenza anti-deforestamento ha tra i punteggi più bassi nel sistema di valutazione messo a punto della London Zoological Society, pubblicherà i nomi dei mulini da cui proviene l’olio dei suoi fornitori. Ma non intende chiedere a questi ultimi di rivelare le loro piantagioni a monte per verificare se sono certificate o meno dall’Rspo. “Senza risalire dai mulini alle piantagioni è impossibile assicurarsi che la materia prima non giunga da aree in perenne disboscamento”, dichiara Andy Tait, esperto di Greenpeace a Londra. Si tratta di un fondamentale elemento di incertezza sulla reale sostenibilità dell’olio, in virtù del quale l’Eni ha perso il contenzioso sul suo “Green Diesel”. Lo scorso gennaio l’Antitrust ha giudicato l’appellativo pubblicità ingannevole, vietandone l’utilizzo e comminando all’azienda una multa di 5 milioni di euro. L’Eni non è riuscita a provare che il suo Diesel+ sia più pulito di quello convenzionale, col 5% di emissioni CO2 in meno. Le certificazioni europee di sostenibilità possedute dai suoi fornitori (distinte da quelle Rspo), seppur tuttora legali, hanno oramai un valore meramente formale poiché aderenti a obsoleti criteri Ue che oggi sono ritenuti scientificamente infondati. Studi indipendenti hanno dimostrato che, se si contabilizza la CO2 rilasciata dalla deforestazione ( sia quella diretta che quella indiretta, necessaria per far spazio alla produzione di cibo spodestata dalle colture di palma), il “petrolio verde” contribuisce al cambiamento climatico più dei combustibili fossili. La riformata normativa Ue, in vigore da quest’anno, stabilisce che l’olio di palma non è sostenibile se proviene da terre disboscate dal 2008 in poi. Un duro colpo all’Indonesia dove solo il 25% delle piantagioni è certificato Rspo in conformità ai nuovi standard Ue. A partire dal 31 dicembre 2023 la porzione di olio di palma conteggiata nelle quote di energie rinnovabili che i paesi hanno l’obbligo di raggiungere (con un minimo del 14% per i trasporti terrestri) dovrà essere ridotta. Fino ad azzerarsi nel 2030. L’Eni si vanta di precorrere i tempi. Ma agli ecologisti non basta: “Chiediamo che l’Italia sopprima subito i sussidi per scoraggiare l’i mp o rt ”, dichiara Andrea Poggio, responsabile mobilità sostenibile di Legambiente.