Statuto dei lavoratori: la legge che ha reso l’Italia “moderna”
Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Aver posto all’articolo 1 della Costituzione repubblicana questa dizione, elaborata soprattutto da Amintore Fanfani, non voleva avere un significato classista. “Niente pura esaltazione della fatica muscolare, del puro sforzo fisico, come superficialmente si potrebbe immaginare”, aveva chiarito lui, “ma affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione ai talenti naturali”.
UN SISTEMA di garanzie va ricostruito dopo lo Stato fascista. Ma già il 4 giugno del 1944 il Patto di Roma Grandi-Di Vittorio-Canevari va in quella direzione, per una Cgil ancora unitaria che riesce a rappresentare in quel passaggio eccezionale tutti i lavoratori. Come ha scritto il ricercatore storico Edmondo Montali, “riempì il vuoto che nel tracollo dell’a pp ar at o pubblico e produttivo seguito alla sconfitta militare impediva ogni interlocuzione sociale e istituzionale”. Per Umberto Terracini, presidente della Costituente nell’ultima fase, la parola “lavoro” divenne “parte integrante della Costituzione”. E Giuseppe Di Vittorio sottolineò come il sindacato unitario si presentasse diverso da quello prefascista: “Sp in a dorsale e pilastro della nazione, della nuova Italia repubblicana”.
Purtroppo la “guerra fredda” Usa-Urss spezza presto l’unità sindacale del Patto di Roma aprendo negli anni ’50 una stagione di divisioni decisamente penalizzante per i lavoratori. Per le elezioni del 18 aprile 1948 la maggioranza del Psi di Pietro Nenni resuscita un frontismo anni ’30 e il ritorno alle sigle “politiche”: una Cgil con comunisti e socialisti, una Cisl coi cattolici, Dc e frange socialiste, una Uil con socialdemocratici e repubblicani. Leader, Giuseppe Di Vittorio, Giulio Pastore, Italo Viglianesi.
Seguono anni di scontri sociali durissimi, di repressioni di piazza sanguinose ( i sei morti di Modena). Alla Fiat la proprietà isola la Fiom creando una sorta di “Fiat Confino”. Ma Di Vittorio, che ha come vice il socialista Fernando Santi, non rinuncia a presentare proposte in positivo come il Piano del Lavoro e ad allentare la cinghia di trasmissione col partito. Per esempio sui fatti di Ungheria, uno choc per la sinistra. Togliatti sposa infatti in pieno l’intervento militare sovietico contro gli insorti, operai e studenti. La Cgil invece emette un documento fortemente critico. Vi ha concorso il segretario confederale Giacomo Brodolini, socialista di estrazione azionista. Che comincia a elaborare l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. Diritti conculcati: le donne possono essere licenziate per matrimonio (e previsione di gravidanza), non possono accedere ad alcune carriere (magistratura ad esempio). Del 1965 è però il Testo Unico su infortuni e malattie professionali e pure l’introduzione delle pensioni di anzianità e di quella sociale. Del 1966, sempre su istanza socialista, la n.604 che dà una stretta ai licenziamenti.
Fondamentale è ormai la collaborazione di due giuslavoristi socialisti, nati entrambi nel 1927, uno genovese, allievo di Giuliano Vassalli, Gino Giugni e uno umbro/ bolognese, Federico Mancini, del gruppo del Mulino, entrambi “figli” politici dell’Unione Goliardica Italiana, diventati amici durante il viaggio verso gli Usa sul “Vulcania”. Più della Cgil è sensibile al discorso la Cisl, più “movimentista” che ha giocato un ruolo molto avanzato nell’“autunno caldo” torinese alla Fiat che seguii per intero per il Giorno. Pensate che la rappresentanza di quella enorme fabbrica si riduceva a 21 rappresentanti, una beffa. I delegati di reparto, le forme di lotta articolate rompono antichi equilibri, e la risposta tutta politica, reazionaria, è la strage di piazza Fontana, il tentativo di creare un clima “alla greca”. Sventato dall’unità sindacale, da quella politica delle sinistre. E la legge che si chiamerà Statuto dei lavoratori va avanti. Anche dopo la dolorosa morte prematura di Brodolini. Col grintoso Donat Cattin. Il Pci si astiene (“Volevamo di p i ù”). Poi festeggia a tutta prima pagina.
LE NOVITÀ sono grandi. Intanto la stretta connessione fra diritti dei lavoratori e presenza del sindacato in fabbrica, quindi un clima di rispetto della dignità e libertà dal lavoratore. Poi, commenta lo stesso Giugni intervistato dall’Avanti!, via “le pratiche di controllo fiscale, le cosiddette polizie private, le ispezioni personali, i controlli per assenza malattia esagerati, quelli a distanza con apparati tv, l’irrogazione arbitraria di sanzioni disciplinari, più ampi spazi per il sindacato nelle fabbriche”. Oltre a maggiori responsabilità. Giugni insisteva molto sulla “giusta causa” ovviamente e sulla possibilità di ricorrere al pretore in casi di comportamenti antisindacali e di chiederne la cessazione entro due giorni. Una riforma tesa a svecchiare, a modernizzare, a migliorare le relazioni industriali.
Nel 1983 mi occorre di fare una lunga intervista al trionfatore delle elezioni politiche spagnole, il socialista Felipe Gonzalez che dichiara spontaneamente il “debito culturale” del Psoe verso la rivista Mondoperaio, Bobbio e ovviamente Giugni e Mancini che ha chiamato a redigere il nuovo codice del lavoro. Allora l’Italia concorreva a migliorare l’Europa.
Al bando le polizie private, le ispezioni personali, l’irrogazione arbitraria di sanzioni disciplinari, il controllo a distanza