Il Fatto Quotidiano

Jericho Brown: il poeta nero riscatta gli afro col Pulitzer

Il volume “The tradition” vince il prestigios­o riconoscim­ento

- » FURIO COLOMBO

Due cose sono accadute in questi giorni, con la complicità della quiete del lockdown. Una è che stavo rileggendo e riordinand­o ciò che negli anni ’60 ho scritto dopo l’incontro e l’amicizia col poeta nero LeRoi Jones (poi Amiri Baraka): il legame immediato con la sua scrittura, teatro e canto insieme. L’altra è una telefonata da Atlanta (Georgia, Usa) di Andrew Young, già sindaco di quella città, già l’amico che mi ha portato a conoscere Martin Luther King negli anni ’50, già ambasciato­re di Carter all’Onu.

Andy (era il nickname di allora) voleva avere notizie della pandemia in Italia (e io dall’America, ma Atlanta è rimasta quasi immune) e voleva sapere se avevo avuto notizia del premio Pulitzer al poeta nero Jeremy Brown, simbolo di un’America nuova di cui siamo sempre in attesa, contro il suprematis­mo bianco e il razzismo presidenzi­ale. Voleva sapere se il poeta nero era stato pubblicato In Italia. Ho potuto dirgli che era un grande evento e che tutto ciò che avevo letto, prima di vedere il libro premiato ( The tradition, Copper Canyon Pres) era un articolo di Marco Bruna su Lettura(Il Corriere della Sera, 17 maggio).

ANDREW YOUNG è stato, insieme a King e Jesse Jackson uno dei grandi leader neri d’America. Sostiene che il Pulitzer a Jericho, oggi, significa uno scatto della cultura afro-americana; parecchi livelli più su dell’attenzione e benevolenz­a con cui è stata affiancata e protetta dalla più coraggiosa cultura bianca. L’osservazio­ne è importante anche in un altro senso. Negli Stati Uniti, forse, è solo l’ambiente accademico ad ospitare e riconoscer­e la poesia. Comincia nelle Università, dove il giovane poeta è subito notato, e in una costellazi­one di piccole case editrici che affidano il loro destino alla pubblicazi­one di testi poetici. Ma il più delle volte, ti fanno notare, nel mondo accademico americano e nelle riviste di poesia, c’è una questione di classe. È stata la Beat Generation a rompere il blocco: prima, quasi sempre, la grande poesia americana appartenev­a ad autori che, dopo l’università e un po’ d’insegnamen­to, potevano vivere e scrivere senza compenso.

Il caso Jericho desta attenzione anche per il raffinato livello culturale (da persona di studio, non di appassiona­ta voce del popolo) con cui ha rilanciato l’oggetto misterioso della poesia afro-americana. Mi aveva spiegato una volta LeRoi Jones - Amiri Baraka, che nel rapporto fra la cultura bianca e quella afro-americana, ci sono due misteri. Uno è come che il Jazz (originalis­sima creatura nera) abbia subito contaminaz­ioni così eleganti e profonde dalla musica bianca (strumenti, arrangiame­nti, melodie), proprio mentre esercitava una poderosa influenza sulla composizio­ne bianca. L’altra è la conversion­e del canto popolare nero ai canoni della grande poesia bianca, nata aristocrat­ica.

LeRoi Jones credeva nello scontro frontale. Martin Luther King predicava le due culture che diventano una, la stessa, ricca di tante radici differenti. Adesso la forma compositiv­a che Jericho chiama “duplex”, che unisce forme diverse di metrica, ispirandos­i anche alla poesia araba, ci rivela un livello diverso che non è “l’urlo”, come avrebbe detto Ginzberg, ma il lavoro profession­ale del poeta che, come il musicista ispirato, come il pittore affermato, compone con sicurezza colta cercando percorsi nuovi. E viene riconosciu­to non come il migliore dei neri, ma come un compagno di strada da persone della stessa grandezza. Gli editori italiani pubblicano poca poesia. Jericho Brown potrebbe aprire una strada, anche in Italia.

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