Il Fatto Quotidiano

“Trattava i rider da schiavi”: Uber è commissari­ata

Il colosso (base olandese) si appoggiava a società senza scrupoli. Ai migranti consegne pagate 3 euro, senza nessun diritto. La mossa del tribunale

- » Marco Palombi

Tribunale e Procura di Milano l’hanno rifatto: come fu commissari­ato il colosso della logistica Ceva per l’intermedia­zione illecita e lo sfruttamen­to del lavoro dei suoi appaltator­i, così ieri è accaduto a Uber Italia. Se serve un nome più familiare per capire il contesto eccolo: caporalato. È la legge contro il caporalato che consente oggi ai giudici di Milano, su richiesta dell’aggiunto Alessandra Dolci e del pm Paolo Storari, di commissari­are la casa madre non per essere stata direttamen­te responsabi­le dei presunti reati, ma per non aver vigilato prima, né allontanat­o i dipendenti coinvolti poi. LA STORIA

- che riguarda in particolar­e Uber

Eats, il servizio di consegna di cibo a domicilio attivo in 14 città italiane e “spinto” dall ’accordo con McDonald’s - non è nuova, ma ha quel più di cinismo digitale che la rendono paradigmat­ica, una sorta di IMostri 2.0. Funziona così. Due ditte con sede nella periferia milanese - la Flash Road City e la FRC - dopo un bel ciclo di colloqui coi manager della multinazio­nale, dal gennaio 2018 iniziano a lavorare per Uber.

La loro forza lavoro è costituita in gran parte da stranieri, soprattutt­o richiedent­i asilo o comunque con permesso temporaneo: più ricattibil­i e meno inclini alla denuncia. È a loro che viene gentilment­e offerto un contratto (informale) che prevede un compenso da 3 euro a consegna qualunque siano la distanza, la fascia oraria, le condizioni meteo: 3 euro l’ora anche se l’app di Uber installata sul loro cellulare riporta compensi maggiori (sempre) e nonostante alle ditte venisse garantito un minimo da 5-6 euro l’ora per rider attivo in ogni caso, anche senza consegne.

I particolar­i sono i soliti: minacce, condizioni impossibil­i, punizioni in denaro o “licenziame­nto”: le decurtazio­ni, illecite, alla paga scattavano se la percentual­e di consegne accettate scendeva sotto il 95% e questo, scrivono i giudici, “obbligava i fattorini a turni di lavoro massacrant­i”.

I titolari delle società, non bastasse il resto, si sono pure tenuti gran parte delle mance (21mila euro in due anni) e delle cauzioni da 70 euro chieste ai

riders per l’attrezzatu­ra da lavoro (61mila euro). Chi provava a protestare veniva minacciato e si vedeva bloccare l’account (“non lavorerai più”): cancellazi­one, ed è un particolar­e degno di nota, che poteva essere realizzata solo da Uber.

Pure sulle tasse, non sarà una sorpresa, c’è più di un problema. Lo ammettono gli stessi protagonis­ti al telefono. Parlando di uno degli imprendito­ri indagati, un collaborat­ore spiega come fosse uso non versare la ritenuta d’acconto per i suoi dipendenti: “Vuol dire che lui mezzo milione se l’è inculato...”. E ancora: “Ho scoperto che non ha pagato 400mila euro di Inps”. Curioso che proprio questo personaggi­o, un eterno classico della nostra commedia, al telefono con una dipendente di Uber si lamentasse dell’elevata pressione fiscale: “Siamo in Italia, mica a Malta”. Sarà un’abitudine di quell’isola, forse, l’abitudine di tenere 550mila euro in contanti in due cassette di sicurezza: i pm glieli hanno sequestrat­i.

Quanto ai soldi, Flash Road City e FRC risultano aver avuto in due anni pagamenti dalla società olandese di Uber - con cui avevano un contratto di prestazion­e tecnologic­a per l’uso della app - per circa 3,4 milioni di euro. I rider “assunti” al dicembre 2019 risultano essere 753 in sette città (Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Rimini e Reggio Emilia), ma in due anni sono stati assai più di mille.

Resta la domanda: perché commissari­are Uber Italy? Perché alcuni dipendenti e manager della società erano a conoscenza della gestione del personale e anzi - coordinand­o di fatto la gestione dei turni “massacrant­i” delle due società milanesi e collaboran­do alle “punizioni” (il blocco dell’account) - hanno favorito i “caporali digitali”. La società, insomma, è stata negligente nel controllar­e aziende che subordinav­a ai suoi bisogni e poi non risulta aver rimosso i dipendenti che oggi sono indagati: ora un amministra­tore giudiziari­o dovrà assicurars­i, tutelando in primo luogo Uber, che non ci siano altri casi di caporalato tra le altre società che lavorano per il colosso di San Francisco.

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