“Trattava i rider da schiavi”: Uber è commissariata
Il colosso (base olandese) si appoggiava a società senza scrupoli. Ai migranti consegne pagate 3 euro, senza nessun diritto. La mossa del tribunale
Tribunale e Procura di Milano l’hanno rifatto: come fu commissariato il colosso della logistica Ceva per l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro dei suoi appaltatori, così ieri è accaduto a Uber Italia. Se serve un nome più familiare per capire il contesto eccolo: caporalato. È la legge contro il caporalato che consente oggi ai giudici di Milano, su richiesta dell’aggiunto Alessandra Dolci e del pm Paolo Storari, di commissariare la casa madre non per essere stata direttamente responsabile dei presunti reati, ma per non aver vigilato prima, né allontanato i dipendenti coinvolti poi. LA STORIA
- che riguarda in particolare Uber
Eats, il servizio di consegna di cibo a domicilio attivo in 14 città italiane e “spinto” dall ’accordo con McDonald’s - non è nuova, ma ha quel più di cinismo digitale che la rendono paradigmatica, una sorta di IMostri 2.0. Funziona così. Due ditte con sede nella periferia milanese - la Flash Road City e la FRC - dopo un bel ciclo di colloqui coi manager della multinazionale, dal gennaio 2018 iniziano a lavorare per Uber.
La loro forza lavoro è costituita in gran parte da stranieri, soprattutto richiedenti asilo o comunque con permesso temporaneo: più ricattibili e meno inclini alla denuncia. È a loro che viene gentilmente offerto un contratto (informale) che prevede un compenso da 3 euro a consegna qualunque siano la distanza, la fascia oraria, le condizioni meteo: 3 euro l’ora anche se l’app di Uber installata sul loro cellulare riporta compensi maggiori (sempre) e nonostante alle ditte venisse garantito un minimo da 5-6 euro l’ora per rider attivo in ogni caso, anche senza consegne.
I particolari sono i soliti: minacce, condizioni impossibili, punizioni in denaro o “licenziamento”: le decurtazioni, illecite, alla paga scattavano se la percentuale di consegne accettate scendeva sotto il 95% e questo, scrivono i giudici, “obbligava i fattorini a turni di lavoro massacranti”.
I titolari delle società, non bastasse il resto, si sono pure tenuti gran parte delle mance (21mila euro in due anni) e delle cauzioni da 70 euro chieste ai
riders per l’attrezzatura da lavoro (61mila euro). Chi provava a protestare veniva minacciato e si vedeva bloccare l’account (“non lavorerai più”): cancellazione, ed è un particolare degno di nota, che poteva essere realizzata solo da Uber.
Pure sulle tasse, non sarà una sorpresa, c’è più di un problema. Lo ammettono gli stessi protagonisti al telefono. Parlando di uno degli imprenditori indagati, un collaboratore spiega come fosse uso non versare la ritenuta d’acconto per i suoi dipendenti: “Vuol dire che lui mezzo milione se l’è inculato...”. E ancora: “Ho scoperto che non ha pagato 400mila euro di Inps”. Curioso che proprio questo personaggio, un eterno classico della nostra commedia, al telefono con una dipendente di Uber si lamentasse dell’elevata pressione fiscale: “Siamo in Italia, mica a Malta”. Sarà un’abitudine di quell’isola, forse, l’abitudine di tenere 550mila euro in contanti in due cassette di sicurezza: i pm glieli hanno sequestrati.
Quanto ai soldi, Flash Road City e FRC risultano aver avuto in due anni pagamenti dalla società olandese di Uber - con cui avevano un contratto di prestazione tecnologica per l’uso della app - per circa 3,4 milioni di euro. I rider “assunti” al dicembre 2019 risultano essere 753 in sette città (Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Rimini e Reggio Emilia), ma in due anni sono stati assai più di mille.
Resta la domanda: perché commissariare Uber Italy? Perché alcuni dipendenti e manager della società erano a conoscenza della gestione del personale e anzi - coordinando di fatto la gestione dei turni “massacranti” delle due società milanesi e collaborando alle “punizioni” (il blocco dell’account) - hanno favorito i “caporali digitali”. La società, insomma, è stata negligente nel controllare aziende che subordinava ai suoi bisogni e poi non risulta aver rimosso i dipendenti che oggi sono indagati: ora un amministratore giudiziario dovrà assicurarsi, tutelando in primo luogo Uber, che non ci siano altri casi di caporalato tra le altre società che lavorano per il colosso di San Francisco.