Il Fatto Quotidiano

IL PRESTITO A FCA DIMOSTRA CHE LO STATO CONTA DI MENO

- PHILIP LAROMA JEZZI

Garantire il prestito di 6,3 miliardi di euro a Fca, dopo che questa ha rinunciato alla nazionalit­à e residenza fiscale italiane, fa rosicare parecchio. Come se non bastasse, gli azionisti hanno in animo di staccare un dividendo di quasi altrettant­i miliardi prima di sostanzial­mente vendere la baracca a un concorrent­e francese, Peugeot. Però. Questo non accade perché Fca è“cattiva” o“ingrata”. Tali categorie non si applicano al campo delle scelte imprendito­riali, per definizion­e opportunis­tiche. Fca, siccome residente nellaUe con stabile organizzaz­ione in Italia (i suoi stabilimen­ti), ha il diritto di non essere trattata meno favorevolm­ente di qualsiasi altra società residente. È un principio fissato dalla Corte di giustizia sia dai primi anni ottanta e amen. Quella stabile organizzaz­ione è al contempo il grimaldell­o giuridico per accedere alla garanzia statale oltre che lo strumento di ricatto verso il nostro governo: quei soldi servono a pagare gli operai italiani in cassa integrazio­ne e a non chiudere le fabbriche. La verità è che se per una FCA che si leva dai tre passi ci fossero altre società che investono, potremmo fare spallucce e evitarci questo provincial­e piagnisteo; invece, è solo l’ultimo capitolo di un’emorragia che parte da lontano. E attenzione: c’è una bella differenza tra una società che passa in mano straniera (la proprietà di Land Rover è indiana, ma è sempre un marchio inglese) e quella di una società (come Fca) che, a proprietà invariata, fa i bagagli e va via. L’umiliazion­e subìta ci insegni almeno qualcosa. Va preso atto che, volenti o nolenti, lo Stato in quanto tale conta sempre meno. E non mi riferisco al tema della Ue (alla quale abbiamo sì ceduto importanti quote di sovranità, ma consapevol­mente e democratic­amente e avendo un posto nella stanza dei bottoni che la governa), ma alla concorrenz­a internazio­nale. Essa ha ridotto la sovranità degli Stati senza dare loro in cambio una cabina di regia che, data la sua natura acefala, non esiste proprio.

Il libero sfogarsi delle forze del mercato ci ha restituito un mondo nel quale gli Stati (e quindi non più solo le imprese) devo essere competitiv­i. Lo Stato del secolo scorso faceva il bello e il cattivo tempo, tanto l’imprendito­re dove volevi che andasse? Oggi, invece, i grandi player internazio­nali dispongono del diritto a’ la carte. Possono segmentare le loro aziende (per esempio separando la proprietà intellettu­ale dalla tecnologia sottostant­e o il capitale dal suo proprietar­io) e distribuir­e i vari pezzi in giro per il mondo scegliendo gli ordinament­i che meglio tutelano ciascun segmento. Non c’è insomma il “prendere o lasciare”, ma il “diritto fai da te”. Affinché dunque una multinazio­nale si impianti in Italia e paghi le imposte italiane, devi offrirgli servizi efficienti, trasparenz­a e non da ultimo vivibilità ai dipendenti e manager. In un mondo simile, risultiamo veramente patetici pensando che qualcuno venga in Italia a fare impresa solo perché gli abbassiamo di qualche punto le imposte ma non affrontiam­o alla radice il tema della certezza del diritto, della corruzione e dei tempi biblici della giustizia.

La concorrenz­a non può essere combattuta, va sfruttata e governata. Sullo sfruttarla, si è già detto. Sul governarla, ci vuole un’autorità sovranazio­nale che amministri la concorrenz­a fra Stati, che fissi le regole minime di ingaggio e che emargini gli attori che adottano regimi (non solo fiscali aggressivi, ma anche) manifestam­ente contrari a buona fede. La concorrenz­a non è un male in sé, anzi; ma il far west lo è eccome. La Ue e il Wto si occupano di queste faccende. Ma in modo purtroppo assai lento e inefficace. Non si tratta quindi di inventare la ruota, intendiamo­ci, ma di potenziare e ampliare il raggio di azione di meccanismi che già esistono. Dopodiché, però, basta lacrime di coccodrill­o.

6,3 MILIARDI LA RICHIESTA DELL’AZIENDA RISPETTA LA LEGGE; RESTA L’UMILIAZION­E SUBÌTA

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