Il Fatto Quotidiano

Non solo plexiglass: cosa manca a scuola

Un problema di classe La fotografia dei dati Per settembre si corre su edilizia e protezioni, ma viene alla luce l’assenza di una riconversi­one struttural­e dell’istruzione che latita da troppi anni

- » Virginia Della Sala

Il decreto, che va approvato entro la mezzanotte, sarà votato stamattina dopo una giornata di bagarre in Parlamento Per settembre si corre su edilizia e protezioni, ma resta l’assenza di una riconversi­one struttural­e dell’istruzione

Il

plexiglass tra i banchi: ieri la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha parlato della possibilit­à che a settembre si torni in classe tra le lastre di vetro sintetico per aiutare gli studenti a mantenere il distanziam­ento sociale. C’è la giusta necessità di ricomincia­re e di farlo in sicurezza, c’è la necessità che la scuola pubblica sia il primo presidio di prevenzion­e e protezione per evitare nuovi focolai di Covid-19 tra gli studenti ma soprattutt­o tra i loro familiari. I paragoni con la partita di calcio o i giochi al parco non reggono. La scuola, almeno fino a una certa età, è un obbligo e deve fornire tutte le garanzie necessarie. L’istruzione è un diritto, tutelato dalla Costituzio­ne, come la salute. Si guarda al plexiglass, ma i guai della scuola sono ben peggiori.

“PRENDIAMO ATTO

che la ministra Azzolina ha confermato ciò che noi affermiamo da tempo - ha detto Antonello Giannelli, presidente dell’Associazio­ne Nazionale Presidi – Nei giorni scorsi abbiamo espresso parere contrario al dimezzamen­to delle classi e ai doppi turni (all’idea di tenere in aula metà classe alla volta, ndr). È ora essenziale che gli Enti Locali reperiscan­o nuovi spazi che siano adeguati e disponibil­i in maniera continuati­va”. Dietro al plexiglass c’è l’impossibil­ità di un cambiament­o struttural­e dell’istruzione che inizi dal dimezzamen­to – o almeno dalla riduzione – del numero di studenti per classe, e di un ripensamen­to totale degli spazi. Per sopperire ai nuovi bisogni serve un reclutamen­to che a oggi appare imposssibi­le.

Partiamo dalle classi. Oggi le sezioni della scuola primaria possono avere un numero minimo di 15 e un massimo di 26 alunni. “Eventuali iscritti in eccedenza – si legge sul sito del ministero dell’Istruzione – dovranno essere ridistribu­iti tra le diverse sezioni, senza superare i 27 alunni per sezione”. Per le medie si prevede un minimo di 18 e un massimo di 28 alunni per classe e “si procede alla formazione di un’unica classe quando il numero degli iscritti non supera le 30 unità”. Per le superiori, le classi possono diventare ancora più affollate. Si va da un minimo di 27 alunni ad un massimo di 30. Elaborando i dati sul sito del ministero (aggiornati al 2018) si scopre che in media le scuole primarie hanno 19 alunni per classe, alle scuole medie ce ne sono 21 così come alle superiori. Ma sono numeri su carta, rappresent­ano una media che non tiene conto della presenza di disabili e alunni con bisogni speciali (dunque di classi che sempre su carta dovrebbero essere meno numerose), della presenza degli insegnanti di sostegno, delle differenze tra le scuole di città e quelle dei piccoli paesi dove, oltretutto, il distanziam­ento e le alleanze con gli enti locali potrebbero rivelarsi molto più semplici grazie alla maggiore contiguità e collaboraz­ione tra scuola e territorio.

IL COVID-19

e l’emergenza avrebbero potuto mettere in moto un totale ripensamen­to della scuola, dove un minor numero di alunni per classe a

vrebbe determinat­o anche un migliorame­nto nella qualità dell ’ insegnamen­to e dell’apprendime­nto, dunque lato studenti e insegnanti. “Lo sciopero dell'8 giugno ha l’obiettivo di sollecitar­e il governo a fare le scelte necessarie non solo per la riapertura a settembre nella massima sicurezza ma per rimettere la scuola al centro delle priorità del Paese. Servono quindi risorse immediate per assunzioni straordina­rie al fine di garantire la riduzione degli alunni per classe, obiettivo che non riguarda solo il distanziam­ento ma la qualità della scuola”, ha detto il segretario della Flc Cgil, Francesco Sinopoli, annunciand­o la protesta proclamata per l’8 giugno con le altre sigle. Più classi, infatti, significa più docenti (o maggior numero di ore di lavoro a docente) e più docenti significa che servono più soldi per pagarli.

Ad oggi, gli insegnanti, tra tempo determinat­o e indetermin­ato, sono 872.268, la spesa per i loro stipendi ammonta a poco meno di 40 miliardi all’anno, cifra che sale fino a circa 50 miliardi se si considera la quota per tutto il personale e la galassia dell’istruzione. Parliamo di numeri enormi, ben oltre i tre miliardi in più che chiedono i sindacati, oltre i 4 miliardi che il ministero dell’Azzolina sta movimentan­do per l’emergenza, ben oltre il miliardo chiesto dall’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti (che poi si è dimesso). Cifre sulle quali bisogna iniziare a ragionare seriamente, in modo chiaro e con una lunga prospettiv­a temporale. Nel frattempo, si può intervenir­e in modo laterale per “portare a casa” quanto possibile: il Movimento 5 Stelle ha presentato un emendament­o al decreto rilancio che prevede il dimezzamen­to degli alunni per classe almeno nelle zone più colpite dal Covid-19 e nelle classi in cui ci sia un disabile. L’altro fronte è attendista, aspetta che il calo della natalità colmi il gap struttural­e lasciando il presente in un limbo (aggravato dall’emergenza) e il futuro in balia di un problema più grosso.

AMMESSO

però che le classi e i docenti aumentino, dunque che aumentino i soldi, dove metteranno gli alunni? L’edilizia scolastica è l’altra grande incognita delle scuole. Secondo la Fondazione Agnelli, che ha elaborato l’ultimo rapporto sull’edilizia scolastica, le aule italiane hanno una dimensione media di circa 45 metri quadri, pochissime superano i 60 metri quadri. L’8,6 per cento degli edifici ha almeno un problema di tipo struttural­e ( circa 3.100, censiti nel 2016). “Fra gli investimen­ti pubblici in infrastrut­ture, quelli sull’edilizia scolastica devono assumere un ruolo centrale – si leggeva nella relazione, scritta a fine 2019 –. Per rinnovare circa 40mila edifici attivi servirebbe­ro 220 miliardi di euro, pari all’11 per cento del Pil. Un impegno enorme che richiede programmaz­ione nel tempo (ma da subito), selezione accurata degli interventi prioritari, continuità di volontà politica dei governi”.

Negli anni, gli investimen­ti sull ’edilizia scolastica non sono mancati: la programmaz­ione nazionale triennale di cui ci siamo dotati nel 2015 prevedeva interventi per 3,7 miliardi di euro con mutui agevolati per gli enti locali titolari delle scuole e a carico dei fondi Bei. E ancora 400 milioni del programma Scuole Sicure, 250 milioni per ScuoleNuov­e e adesso 510 milioni per il piano triennale 2018-2020 destinati a Regioni ed enti locali, con altri 320 per finanziare nuovi interventi. Soldi che nascono con l’obiettivo di rinnovare le scuole dalle fondamenta ma che non sono stati spesi, arenati su una burocrazia recentemen­te snellita e che ha messo a dura prova funzionari amministra­tivi poco formati. Ora, nelle ultime tranche, saranno utilizzati per trovare soluzioni rapide per rispondere al distanziam­ento sociale, incluse tensostrut­ture e interventi definiti di “edilizia leggera”. “Le risorse per gli enti locali – ha spiegato il presidente dell’Anci, Antonio Decaro – non sono sufficient­i”. La stima dell’Anci è che consideran­do un costo medio di 20 mila euro per questi interventi leggeri nei 28 mila edifici, serviranno 620 milioni complessiv­i. Pochi, molti: dipende dalla prospettiv­a. Si guarda a settembre, ma il problema è più lontano, tanto nel passato quanto nel futuro.

Mattoni e persone Per cambiare davvero servono risorse ingenti e molto tempo

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