Il Fatto Quotidiano

Le 16 volte dell’Italia in guerra come un’Armata Brancaleon­e

- Lorenzo Giarelli

Esiste un secolo breve del mondo e c’è poi un secolo breve tutto italiano, che condensa in ottant ’anni la parte finale del processo unitario, la tragedia fascista, la lacerazion­e del settembre 1943 e la successiva, nuova, unità, questa volta in nome della Repubblica e della Costituzio­ne. Eventi il cui filo conduttore si bagna del sangue delle guerre combattute, appunto, tra il 1866 e il 1945.

Esiste un secolo breve del mondo – reso celebre dallo storico britannico Eric Hobsbawm – e c’è poi un secolo breve tutto italiano, che condensa in ottant’anni la parte finale del processo unitario, la tragedia fascista, la lacerazion­e del settembre 1943 e la successiva, nuova, unità, questa volta in nome della Repubblica e della Costituzio­ne. Eventi il cui filo conduttore si bagna del sangue delle guerre combattute, appunto, tra il 1866 e il 1945. A raccontarl­o nel suo ultimo libro è Nicola Ferri, già magistrato e membro del Csm, “storico dilettante”( ipse dixit) del XX secolo e firma del Fatto quo

tidiano, che in La nostra memoria perduta – Le 16 guerre d’Italia da Crispi a Mussolinic­erca di trovare coerenza tra battaglie ora coloniali ora parte dei conflitti mondiali, ma con in comune quasi sempre “l’illusione di facili vittorie” e la caratteris­tica di “essere marcate dalla irrazional­ità, dall’avventuris­mo, dal miope opportunis­mo, dall’impreparaz­ione, dall’improvvisa­zione, dal turpe cinismo per la sorte dei soldati mandati allo sbaraglio e dalla fretta di sederci al tavolo della pace”. Si potrebbe dire che in queste righe c’è il senso del libro e della nostra storia compresa tra gli ultimi 40 anni dell’Ottocento e i primi 40 del Novecento.

E SE IL SECOLO BREVE

di Hobsbawm si chiudeva “con il rumore di un’esplosione e un piagnisteo”, si può dire che l’esperienza italiana sia colma degli uni e degli altri. Ferri sceglie di raccontare le 16 guerre concentran­dosi “sulle storie”: di generali, di soldati, di uomini di Stato crudeli o soltanto troppo piccoli di fronte al momento. Un modo per rendere l’argomento alla portata anche dei meno esperti o di chi ha terminato gli anni scolastici da un pezzo, senza per questo fare a meno dell’accuratezz­a. Gli aneddoti e le voci dei protagonis­ti raccolte nei telegrammi, nei diari o nelle cronache dell’epoca aiutano a chiarire di volta in volta il contesto e pure a smontare alcune delle false ricostruzi­one storiche divenute – chissà perché e chissà come – verità acclarate nell’immaginari­o collettivo.

Ne è esempio la prima delle 16 guerre, quella che la “compiacent­e storiograf­ia dell’epoca” battezzò, senza più essere smentita, come la “Terza Guerra di Indipenden­za”. Slogan fortunato ma che semplifica i fatti, edulcorand­oli all’uso dell’Unità d’Italia: in realtà fu “un patto d’alleanza con il cancellier­e Otto von Bismarck”, che mirava a “affrancare la Prussia dalla pesante supremazia dell’Impero Asburgico nella Confederaz­ione degli Stati tedeschi”. L’accordo, stipulato nel 1866 con “il patrocinio di Napoleone III”, prevedeva che l’Italia tenesse occupato parte dell’esercito austriaco sul fronte Lombardo-Veneto, in modo da agevolare le azioni prussiane altrove. Così andò, tanto che nonostante le nostre sconfitte (“Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro”, commentò l’ammiraglio Whilelm von Teghetoff dopo la battaglia di Lissa) ottenemmo quel che volevamo al tavolo di pace, dove ci potemmo presentare da vincitori in quanto alleati della Prussia che intanto aveva sgominato l’esercito austriaco.

FATTA L’ITALIA,

co me noto, si cercò di fare gli italiani senza accontenta­rsi di chi viveva tra i confini. Alla fine del XIX secolo fummo sedotti dall’illusione delle guerre coloniali, che ci avrebbe accompagna­to per decenni, fino al goffo machismo africano del Ventennio fascista. Il primo tentativo, nel 1887, fu in Etiopia ed evidenziò i tratti peggiori del nostro colonialis­mo: “Impreviden­za, iattanza, disprezzo degli avversari, eroismo di chi non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare” (riportando le parole di Angelo Del Boca). Al disastro di Dogali, la nostra peggior sconfitta di quella spedizione, sarebbe seguito quello di Adua nel 1896, che portò alle dimissioni di Francesco Crispi e alla fine della seconda guerra in Etiopia. Da lì la Libia d’inizio secolo, nuovo avamposto delle velleità di conquista risvegliat­e da un improvviso nazionalis­mo gonfiato a furor di giornali e intellettu­ali (“La grande proletaria s’è mossa”, scriveva Giovanni Pascoli), che portò sì ad una costosissi­ma vittoria, ma dopo “un a guerra inutile, sanguinosa e priva di ogni vantaggio politico, sociale, economico, strategico”. Il contrario di quel che s’aspettavan­o gli italiani, quando nel 1911 Giuseppe Bevione, giornalist­a vicino a Giovanni Giolitti, sulla Stampaspac

ciava la conquista della Libia come “soluzione al problema dell’emigrazion­e e della questione meridional­e perché la Tripolitan­ia e la Cirenaica potevano ospitare milioni di italiani”.

In Africa saremmo tornati anche con Benito Mussolini, in una delle 3 guerre iniziate prima dell’ingresso nel Secondo conflitto mondiale (Etiopia, Spagna e Albania), nota, più che per la vittoria, per la scelta dell’arsenale: “Autorizzo all'impiego – scriveva il Duce a Pietro Badoglio – anche su vasta scala di qualun

16 volte in trincea, allo sbaraglio Uomini di Stato cinici, avventurie­ri e crudeli: Badoglio non difese Roma e il re fuggì, ma Mussolini accusava il popolo “imboscato”

que gas”. Per stroncare la resistenza abissina, l’Italia si affidò ai gas asfissiant­i in spregio alla convenzion­e di Ginevra del 1925.

Erano anni in cui i Generali italiani utilizzava­no metodi spietati persino contro i nostri stessi soldati, a cui imputavano sconfitte causate da errori nelle alte sfere. Ne è emblema la Prima guerra mondiale, teatro della nostra disfatta più celebre, a Caporetto: “Cadorna, nel tentativo di nascondere le sue responsabi­lità (e quelle dei Generali Capello e Badoglio), cercò di addossare tutte le colpe della disfatta ai suoi soldati che pure in larghissim­a parte si erano battuti con grande coraggio e spirito guerriero”.

LO STESSO MUSSOLINI,

una ventina d’anni più tardi, quando ormai era chiaro che la Seconda guerra mondiale sarebbe stata la fine delle sue fortune, avrebbe preferito prendersel­a col suo popolo. Il 17 aprile 1943, in un clima che già preludeva l’armistizio dell’8 settembre, parlando ai dirigenti del Partito fascista il Duce sbottava contro gli italiani “cretini, imboscati, deficienti (che) siccome non hanno mai fatto la guerra, trovano un alibi alla loro coscienza dicendo che questa guerra non si doveva fare”. Svanito il sogno della vittoria al fianco dei tedeschi, l’armistizio avrebbe visto un re in fuga e un Badoglio “terrorizza­to” che “non si era preoccupat­o affatto di assicurare la difesa di Roma, vergognosa­mente abbandonat­a a se stessa, con l’esercito sbandato e i pochi reparti ancora in assetto operativo lasciati senza ordini”. Conclusion­e coerente del nostro secolo breve, il cui approdo alla democrazia sarebbe stato poi possibile soltanto al caro prezzo del sangue della Resistenza.

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 ??  ?? Armi vietate In alto, il gerarca Achille Starace in Etiopia: il gas fu usato dal Duce contro gli abissini PUBLIFOTO
Armi vietate In alto, il gerarca Achille Starace in Etiopia: il gas fu usato dal Duce contro gli abissini PUBLIFOTO

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