Bolivia, tanti alberi (e un sacerdote) per fermare la coca
Contro l’erosione Per decenni le coltivazioni intensive a La Paz hanno cancellato interi ettari di foresta. Ora Don Mario, con la agrosilvicoltura pianta alberi accanto alla “foglia sacra” biologica Mentre i cocaleros si espandono anche nei parchi “C
NEI CAMPI IL 10% DEL PIL MASSIMA RESA In tutta la Bolivia sono 22 mila gli ettari di piante , destinate a un consumo tradizionale della foglia: masticazione, infusione e industrializzazione su piccola scala
La foglia di coca “standard” si vende tra 11 e 14 euro al chilo, quella biologica tra 17 e 20 euro
Nel 2011, 80 laboratori di lavorazione della cocaina sono stati scoperti nel parco nazionale del Chapare
oltivo questo campo solo da due anni, ma già si vedono i risultati”. Mario Vilca – Don Mario, come lo chiamano qui –, è un coltivatore di piante della coca nella regione del Nor Yungas, a circa 100 chilometri da La Paz. È quasi mezzogiorno e, sotto il sole che picchia, sta mostrando il suo terreno a due vicini, Jimena Vilcachambi e Tulio Magueño, agricoltori anche loro. Tutti e tre camminano tra i filari di coca, la pianta dalla “foglia sacra”, destinata all’uso tradizionale, ma anche alla produzione di cocaina. Il terreno si sviluppa a terrazze sul fianco della montagna, come è tipico in questa regione degli Yungas, dove le Ande incontrano l’Amazzonia, a circa 1.500 metri di altitudine. Mario coltiva la coca biologica in agrosilvicoltura e per questo è preso come esempio da tutti.
Anche sull’altro fianco della valle si estendono campi di coca, ma lì si ricorre al debbio, perciò la montagna è brulla, non ci sono più alberi e si possono scorgere i residui di bosco carbonizzato. Il terreno di Don Mario invece è diverso: “Il principio dell ’agrosilvicoltura è di ricreare l’ambiente naturale – dice –, nel nostro caso il bosco. Alle piante di coca accostiamo altri alberi. Lì c’è un huasicucho, qui un albero di limoni, laggiù un arancio”. Si evita in questo modo l’erosione del suolo che in questa regione provoca frane drammatiche. La strada che dalle alte vette andine scende verso gli Yungas è una delle più pericolose al mondo, soprattutto nella stagione delle piogge. Autobus interi vengono spazzati via dalle colate di fango o si ritrovano schiacciati sotto le frane. L’erosione nella regione è colpa di quindici anni di monocoltura: qui la coca è ovunque. Il motivo di tanto interesse per questa pianta è semplice: è facile da coltivare e si vende bene, tre raccolti all’anno per circa 11 euro al chilo. Abraham è autista di minibus: “I prezzi non sono mai stati così alti. Eppure, il consumo tradizionale è rimasto lo stesso, non mastichiamo più coca di prima. È ovvio – dice – che è il narcotraffico a imporre questi prezzi”.
GLI ALBERI PIANTATI
sul terreno di Don Mario, oltre a prevenire l’erosione e a offrire un po’ di meritata ombra, permettono al terreno di conservare le sostanze nutritive. Romane Chaigneau lavora per l’associazione Coeur de forêt, che fornisce supporto tecnico e finanziario all’agricoltore: “La coca – spiega – è una coltura che impoverisce molto il terreno. Piantando degli alberi su un campo di coca, dopo dieci, quindici anni al massimo, una volta rimosse le piante di coca che non danno più nulla, non ci si ritrova con un terreno completamente spoglio, ma con degli alberi, già un po’ cresciuti, che forniscono la materia organica. Evitiamo in questo modo che la terra resti senza sostanze nutritive e che non sia più fertile”. In questa regione a nord di La Paz si vedono spesso ampie praterie al centro di fitti boschi, le chiamano pudicamente “pajonales”. Si dice che si tratti di vecchie piantagioni di coca su cui il bosco non è mai riuscito a ricrescere. Se Jimena Vilcachambi è andata ora a trovare Don Mario è perché ritiene che sia urgente agire: “Quando ero bambina, il paesaggio era completamente diverso. Le montagne erano coperte di alberi. Una giungla! Si guardi intorno ora – dice
ESCLUSA DAL VOTO Il 6 settembre si terrà il secondo turno delle presidenziali: il tema coca non è nel programma dei candidati
– non è rimasto più nulla. E poi non c’è più acqua da nessuna parte”.
Jimena ha una trentina d'anni, è madre ed è a capo della sua comunità, si sente quindi responsabile nei confronti delle generazioni future: “Anche io coltivo la coca. Ma ho visto come il terreno si riduce dopo anni di sfruttamento. Cosa lascerò a chi viene dopo di me? E poi, tutti questi erbicidi che usiamo, non possono essere buoni per la salute”. Miguel Crespo, direttore di Probioma, una fondazione per la produttività, la biosfera e l’ambiente, conferma che “nelle regioni in cui si coltiva la coca, le aziende che vendono pesticidi fanno molti affari e gli agricoltori spargono queste sostanze chimiche sui campi come se fosse acqua”. Per Crespo, ricercatore in biologia, c’è già un problema di salute pubblica, di cui però non si parla: “Si immagini queste foglie di coca coperte di fertilizzanti che la gente mette in bocca direttamente e che mastica per ore”. Per Don Mario però chi pratica da tempo l’acullico (la masticazione della coca) sa fare la differenza tra la coca piena di pesticidi e la coca biologica. L’agri
Un problema di salute pubblica Gli agricoltori per aumentare la produzione spargono pesticidi che la gente mastica poi per ore
coltore non ha problemi a vendere il prodotto dei suoi raccolti. Mentre la foglia di coca “s tandard ” si vende tra 11 e 14 euro al chilo, Mario Vilca vende le sue tra 17 e 20 euro al chilo. In Bolivia, sono autorizzati 22 mila ettari di piante di coca su tutto il territorio nazionale, destinati, in linea di principio, ad un consumo tradizionale della foglia: masticazione, infusione e industrializzazione su piccola scala (dolci, torte). Le due regioni principali di coltivazione della coca sono gli Yungas, dove vive Don Mario, e il Chapare, dove l’ex presidente Evo Morales, ormai 20 anni fa, si era affermato come leader sindacale dei produttori di coca prima di entrare in politica. Nel Chapare Morales aveva affrontato i governi neoliberali che, sotto l’influenza degli Stati Uniti, promuovevano la politica “zero coca”, sollevando la feroce opposizione dei cocaleros, che da generazioni vivono grazie a questa coltura tradizionale. Se oggi una parte dei campi della regione sono legali, il Chapare, come è noto, è al centro dei traffici di droga della Bolivia. Nel 2011, 80 laboratori di lavorazione della cocaina sono stati scoperti nella riserva di Tipnis, un parco nazionale che si estende in parte nel Chapare, come riporta Silvia Rivera Cusicanqui nel suo libro Mito y desarrollo en
Bolivia. Nel Tipnis vivono popolazioni ancora isolate dal mondo moderno e la flora e la fauna sono preservate.
MA CIRCA 30 ANNI FA
dei “coloni” si stabilirono nell’area sud-orientale del parco, chiamata Polygone 7, dei boliviani dell’Altiplano che le autorità avevano fatto spostare dopo la chiusura delle mine in un’area giudicata all’epoca ancora “da conquistare”. Cristina Molina, di etnia mojeña, ha sempre vissuto nel Tipnis, nella comunità di Santisima Trinidad, sola con i suoi due figli. Suo marito è dovuto partire perché non riusciva a trovare lavoro: “È insegnante, ma perché è mojeño, qui non lo fanno lavorare.
I cocaleros sono diffidenti e controllano tutto. Il solo lavoro che ci viene permesso di fare, a noi popolazioni indigene, è coltivare la coca”. Cristina ritiene che in venticinque anni qui tutto sia cambiato: “Oggi per preparare la colazione si va all’alimentari. Lo stesso vale per il pranzo e per cena. Tutto è diventato una questione di soldi e, se non ne hai, non puoi fare nulla. Prima c’era la foresta. Mio padre andava a caccia e con un cinghiale avevamo da mangiare per tutta la settimana”. Il Polygone 7 è attraversato da una strada sterrata lungo la quale le foglie di coca sono messe a seccare, anche se coltivarla è vietato nel parco nazionale. Ma questa regione è diventata un no man’s
land dove a comandare sono i produttori della foglia: né le autorità né i turisti vi possono entrare senza essere sorvegliati. I cocaleros hanno anche ottenuto di prolungare la strada in modo che attraversi tutto il parco, così potranno trasportare più facilmente il prodotto, causando però una deforestazione irreparabile. Con 70 mila produttori registrati a livello nazionale, più tutte le persone che lavorano nella raccolta, nel trasporto, nella vendita al dettaglio e nella lavorazione della foglia, la coca rappresenta circa il 10% del Pil del settore agricolo in Bolivia, ovvero 450 milioni di dollari (se consideriamo che tutta la coca passi per i mercati legali, stando al rapporto UNODC Monitoreo de cultivos de coca 2018, agosto 2019). Se i voti dei produttori e il valore della coca interessano gli uomini politici in corsa per le prossime elezioni presidenziali, la cui data non è ancora stata fissata a causa della pandemia di Covid-19, il tema dell’impatto ambientale della foglia di coca invece non figura in nessuno dei programmi di campagna dei candidati.