MasterSalvini
Il contesto è notevole, un’apoteosi semiotica: in un ristorante, a fine pasto, si tiene la conferenza stampa dei vertici leghisti, in merito alle morti di tre neonati per un’inf ezio ne batterica all’ospedale di Borgo Trento a Verona. Dopo l’amaro e il caffè, parla Zaia: “È doveroso mettere in sicurezza i bimbi e l’ospedale”; accanto a lui, attavolato, Salvini s’infila in bocca una, due, dieci ciliegie arraffadole da un contenitore di plastica. “Non riusciremo più a dare la vita a quei bimbi e ai bimbi che si sono ammalati”, dice grave Zaia, e Salvini sgraffigna altre ciliegie dalla bagnarola, si sgargarozza, sputa il nocciolo nel pugno e così via.
Lo schema è noto: Salvini fa una cosa esteticamente e/o eticamente discutibile; le persone beneducate si indignano; lui ritrova il suo ubi consistam ergendosi a vittima dell’egemonia dei radical chic che mangiano solo zenzero e quinoa, si mettono la mascherina, non vanno negli stabilimenti ecc., tra gli applausi dello stampume di destra per cui la cafonaggine è virile naturalezza.
“Non posso mangiare ciliegie?”, direbbe questo attore della commedia all’italiana davanti alle critiche dei benpensanti. Però qui l’ingordaggine rivela l’uomo più che il politico: il pensiero di neonati morti o con danni neurologici farebbe passare a chiunque non tanto la voglia di far propaganda ruspantista, quanto l’appetito. A Salvini no. A Salvini viene. Dici “neonati morti” e gli si apre lo stomaco. Dal che consegue che quando è a casa, tra i suoi, è esattamente come quand’è sotto i riflettori: non ha filtri, l’unico filtro essendo, ad avercelo, un senso di decenza interno che procrastinerebbe gli istinti. Per lui la politica è quella cosa che accade tra un borborigmo e l’altro. Però ecco, almeno alla fine non ha ruttato.