Sala e il telelavoro
Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha rilanciato la richiesta di porre fine allo smart workingmassivo. Le ragioni politiche sono facilmente intuibili: Milano – tra le metropoli la più colpita dal virus e dal lockdown– è un enorme centro di servizi e ancora oggi le grandi aree che raccolgono società e uffici sono deserte. Basta farsi un giro nei pressi dei grattacieli attorno al palazzo della Regione o a City life per vedere un numero impressionante di saracinesche abbassate. Sala chiede che dopo il virus “non si contribuisca anche con scelte sbagliate ad aggravare la situazione di diversi comparti economici, non di certo per perpetrare una società troppo basata sui consumi, ma per aiutare chi oggi rischia di perdere il proprio lavoro a riorganizzarsi, a provare a reinvestire nella propria attività e adeguarla a un nuovo modello, che andrà esplicitato, condiviso, costruito. In una sola parola governato”.
IERI SU QUESTE COLONNE, il professor De Masi ha, d’alt ro canto e non senza ragioni, notato che durante i mesi di lo ck do wn “lo s ma rt working ha salvato l’economia e la scuola contribuendo a salvare la salute”. A margine di queste riflessioni ha anche risposto al professor Ichino e alle sue dichiarazioni sui dipendenti pubblici per i quali, nella maggior parte dei casi, il lavoro da casa sarebbe stato “una lunga vacanza”, leggendole come pregiudizio nei confronti dei “lavoratori pubblici
(per definizione tutti furbetti del cartellino), quelli contro il lavoro agile (per definizione tutto anarcoide e fannulloide)”. Ci associamo, sottoscrivendo in toto.
Però ci sono, a latere, altre urgentissime questioni da mettere sul tavolo. Soprattutto se in autunno ci troveremo a fronteggiare una seconda ondata pandemica. Oppure se le grandi aziende decideranno che la modalità da remoto, con gli enormi risparmi che comporta (affitti, benefit, pulizie), sia comunque preferibile perché più vantaggiosa. Le questioni urgenti riguardano l’organizzazione sociale e i servizi come nidi e materne, storicamente non in grado di soddisfare le necessità delle famiglie già prima. Oggi, volendo iscrivere un figlio ai centri estivi, c’è un punteggio che per i genitori in smart working si abbassa. Come se si potesse lavorare tranquillamente con un figlio di tre anni, che notoriamente si può lasciare solo per ore a leggere un libro. È soltanto un esempio di come la politica non sia ancora in grado di rispondere ai nuovi bisogni. Sala, con un intervento sul Corriere , chiede un nuovo statuto dei lavoratori. Diffidiamo sempre delle formule della politica, non solo perché sono pompose, ma perché spesso confidano sulla smemoratezza dei cittadini (chi ha smantellato, pezzo per pezzo, il precedente Statuto?). Però servono tutele nei contratti, e subito: nuove forme di organizzazione chiedono nuovi diritti, soprattutto in un tempo di precarizzazione selvaggia e proletarizzazione del lavoro intellettuale. Una questione riguarda la durata della giornata lavorativa: il tempo di casa non può coincidere con il tempo di lavoro, in una reperibilità indeterminata (quindi assoluta). Vista la retorica che accompagna da decenni il lavoro, non più fondamento del nostro patto sociale, ma cortesia che viene concessa in cambio di salari sempre più bassi, non è il caso di affidarsi al buon cuore o all’umanità di quelli che un tempo si chiamavano padroni (ma che, pur con nomi diversi, non hanno smesso di comportarsi come tali). Bisogna che adesso, subito, si proceda a regolamentare quello che sembra un modello ormai scontato. Anche se non è una bella società quella popolata da una moltitudine di individui che, chiusi in una stanza solitaria, contribuiscono al profitto di pochi con l’unica prospettiva di guadagnare per consumare qualche briciola.
DA REMOTO SE LE AZIENDE OPTANO PER QUESTA FORMA DI LAVORO, SERVONO TUTELE: SUBITO