Salvini confuso
Alla fine, il primo a farsi la foto sul ponte di Genova redivivo è stato lui, Salvini Matteo, cioè lo stesso che nemmeno alla cerimonia di lutto e dolore per i morti nel crollo aveva resistito alla tentazione dei selfie sorridenti con i fan.
NON CONOSCO LA BORSA VALORI delle photo opportunity, quindi non so dire in quale percentuale una foto sul ponte di Genova possa riparare i danni dello show veronese delle ciliegie, compulsivamente ingurgitate ascoltando un discorso su neonati deceduti all’ospedale. Boh, gli strateghi dell’immagine salviniana avranno fatto i loro conti. Una cosa è certa: esiste, al posto della politica, una rappresentazione mediatica, un calcolo semantico (spesso sbagliato), un gioco molto simile alla guerra delle copertine che si fanno i giornali di gossip. Insomma, divertente, ma ormai è noto che quando la gente chiede “Ahah! Hai visto Salvini?”, non si aspetta un discorso politico, ma la mattana del giorno, il numero, lo sketch, la battuta, il balletto. Cosa ci dirà Salvini lo sappiamo già, e sappiamo pure che si tratta di ricette variabili a seconda del momento e dell’opportunità. Chiudiamo tutto, apriamo tutto, meno tasse, più soldi, più debito, meno debito, tutto facile e immediato. Inutile insistere oltre, sono cose che si sanno.
Più interessante è invece il meccanismo per cui un leader politico, o in generale una figura pubblica, tende a impersonare, e addirittura a superare, la sua caricatura, esasperando proprio i tratti grotteschi che gli si rimprovera. Salvini, dal Papeete in poi, ha deciso di creare una specie di iper-salvini, cioè di diventare una macchietta di se stesso pensando che questo pagasse in termini di popolarità, che lui confonde con la politica. Si dirà che la colpa è dei media: se si pubblicassero foto di Salvini quando Salvini parla di politica lo vedremmo una volta al mese, mentre ormai la notizia è la foto di Salvini che si fa una foto da solo. E vabbè, non è certo una cosa nuova questa di confondere popolarità e politica, ma la differenza con l’oggi è che un tempo si cercava di coniugare popolarità e credibilità, cosa oggi considerata facoltativa. Per cui abbiamo paginate intere su un ex generale dei carabinieri vestito di arancione che abbina al ribellismo reazionario dichiarate frequentazioni con gli alieni, per esempio. E gli si dà spazio lo stesso, in lungo e in largo, invece di chiamare l’ambulanza.
Oppure abbiamo l’autocaricatura per eccellenza, il modello imprenditoriale che consiglia e indirizza, quando non si mette a sbraitare: “Questi qui sono gente matti”, all’indirizzo del governo. Flavio Briatore, ascoltato spesso come un guru dell’economia con la sublime motivazione che sa far funzionare un bar, lascia stupefatti per la sua aderenza alla propria stessa macchietta. È uno che dice “tachipinha ”, confondendo medicine e long drink, che si lamenta delle piste ciclabili perché gli rallentano il macchinone da milionario, insomma, è un cinepanettone ambulante, periodicamente convocato a discettare delle sorti del Paese, una specie di Sgarbi dei privé. Questo potrebbe spiegare la crisi della commedia all’italiana, che fu una delle nostre enormi ricchezze passate. Quegli arcitaliani, quei magnifici caratteristi, sono tra noi. La realtà che si fa farsa è assai difficile da rappresentare se già esiste in natura in così perfetta forma. La cosa strabiliante è che si confonda – e che lo facciano i media assetati di clic e di ascolti – tutto ciò con la politica, come fare mediocre cabaret oratoriale e credersi Shakespeare.
PURTROPPO ANCHE I MEDIA RINCORRONO I GOFFI BRIATORE E I GENERALI PAPPALARDO