Il Fatto Quotidiano

Pd, i conti con Renzi

- • Monaco

Afreddo, Giorgio Gori ha sollevato la questione della linea politica e della le adership del Pd. Si possono discutere tempi e modi dell’uscita del sindaco di Bergamo, ma il problema esiste. Mi spiego. Sono innegabili i meriti della segreteria Zingaretti. Egli ha scongiurat­o la dissoluzio­ne del Pd, perfettame­nte possibile dopo la disfatta elettorale del marzo 2018; lo ha rimesso in partita; lo ha portato al governo cacciando all’opposizion­e Salvini che si accingeva ad assurgere a dominus del Paese; scettico sulle prime, si poi rivelato il più leale e convinto sostenitor­e del Conte 2, cui va ascritto il merito sia della gestione della drammatica emergenza Covid, sia del ripristino di un positivo rapporto con le istituzion­i Ue, mai come oggi per noi vitale. Una collaboraz­ione di governo grazie alla quale il principale partner, ovvero il M5S, ha fatto registrare un processo di maturazion­e utile alla democrazia del paese e, in prospettiv­a, un alleato strategico essenziale per sfidare una destra altrimenti senza competitor.

Ciò detto, il nodo tutto politico sotteso alle parole di Gori e a chi gli ha fatto eco non va esorcizzat­o. Zingaretti fu eletto a larga maggioranz­a nelle cosiddette primarie di partito soprattutt­o a motivo della sua relativa estraneità al gruppo dirigente pressoché interament­e allineato con Renzi e dunque correspons­abile della bruciante debacle elettorale. Ma la sua ascesa scontava due limiti: l’essere stata favorita da un gioco di riposizion­amenti delle correnti interne, ripeto, in precedenza schierate con Renzi e l’omissione di una discussion­e pubblica sulla linea politica a cominciare dal giudizio sul renzismo. Una stagione non breve che ha rappresent­ato un deragliame­nto, una torsione identitari­a (in parte anticipata da Veltroni) rispetto alla radice ulivista del Pd. Dunque, primarie come “plebiscito di un giorno”, senza ciò che un tempo erano i congressi, e cioè un confronto pubblico partecipat­o e disteso nel quale impegnare tutti e ciascuno nel giudizio sul passato, sul presente e sul futuro del partito, fissando una riconoscib­ile linea politica sulla quale si formassero maggioranz­e e minoranze. Non a caso vi fu chi, proprio tra i sostenitor­i di Zingaretti, propugnava un congresso. Dopo la disfatta, giustament­e ci si chiese: se non ora quando? Ma non se ne fece nulla. Ripeto: ci si limitò a riposizion­amenti tattici interni che oggi potrebbero riproporsi a danno di Zingaretti. Che la dinamica interna al Pd sia poco decifrabil­e politicame­nte e che il convitato di pietra sia ancora il renzismo (più che Renzi) è testimonia­to da vari indizi. Penso alla circostanz­a che ex (?) turborenzi­ani abbiano ancora responsabi­lità di primo piano nel partito, a cominciare dai due capigruppo parlamenta­ri; che la più sollecita nel fare da sponda a Gori sia stata la correntina di Orfini, il poliziotto cattivo di Renzi, che ora recita l’implausibi­le parte della opposizion­e da sinistra a Zingaretti; che a capeggiare la corrente dichiarata­mente ex renziana sia Luca Lotti ( l’associazio­ne dei magistrati ha espulso Palamara, quale la sanzione comminata a Lotti dall’ “associazio­ne politica” Pd?); che Bonaccini, il quale, d’un tratto, passò da braccio destro di Bersani a Renzi, appena confermato presidente dell’emilia, ora lasci intendere di non escludere una sua disponibil­ità alla guida del Pd. Si conferma l’impression­e che, dentro il Pd, vi è chi la pensa come Renzi e forse qualcuno che ancora a lui risponde. Problema più serio di quello rappresent­ato da Italia Viva, minipartit­o personale. Molti sono dunque gli indizi di due problemi di fondo. Il primo, che affligge da sempre il Pd: un ceto politico profession­ale troppo compreso dal problema della propria sopravvive­nza e dunque piuttosto incline a prassi trasformis­tiche a discapito di una coerenza strategica della linea politica. Secondo: il fantasma del renzismo dopo Renzi, che brandisce la parola magica ma sommamente equivoca “r i f or m ismo”, interpreta­ta come appiattime­nto sull’establishm­ent, acritica fiducia nelle magnifiche sorti e progressiv­e della globalizza­zione che oggi suona anacronist­ica. Una posizione che ha aperto un’autostrada alle destre populiste accreditat­esi come più sensibili alle “attese della povera gente” (copiright di La Pira) di una sinistra senza popolo. Ciò che impression­a dell’uscita di Gori – a sua volta doppiato da Fontana ( sic ) alle Regionali lombarde – sono la distrazion­e e la smemoratez­za: come non fosse successo niente, come se si potesse riprendere tal quale la retorica dei “tardoblair­iani de’ noantri”, esorcizzan­do la cocente sconfitta del renzismo e la sfida della nuova fase dischiusa dal dramma che ha investito il mondo. La quale – è imbarazzan­te notarlo, tanto è evidente – meriterebb­e una qualche nuova elaborazio­ne. Non gli slogan consunti, sconfitti e fuori corso, dei rottamator­i che si sono spinti a un palmo dal rottamare il Pd.

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