Il Fatto Quotidiano

Quando Bob Marley a San Siro mandò in fumo gli anni 70

L’ultima magia tra impegno e misticismo

- » Gianni Barbacetto

Ciò che successe quella notte a San Siro non era mai successo prima e non successe mai più dopo. Ottantamil­a ragazzi riempirono lo stadio ( ancora senza terzo anello) per ballare, cantare, fumare con Bob Marley. Fu la celebrazio­ne di un imponente rito di massa, il concerto più grande – e insieme l’ultimo – dell’era “dell’ impegno” prima che arrivasser­o gli anni “del riflusso”. Quella notte, a San Siro, trionfaron­o per l’ultima volta le positive vibrations e morirono gli anni Settanta.

L’ITALIA IN SACCO A PELO

E C’È UN CERTO PINO DANIELE Era il 27 giugno 1980. Mancavano cinque minuti alle 21 quando i 45 mila watt dell’impianto di amplificaz­ione cominciaro­no a sparare il ritmo in levare che dalla Giamaica aveva contagiato prima Londra, poi il mondo occidental­e.

Un boato, tutti in piedi, una moltitudin­e ondeggiant­e. Le I-threes vocalizzan­o, The Wailers suonano, poi Bob entra in scena e comincia a cantare, con la sua voce acre e dolce. A Jamming è il delirio. Si accendono migliaia di fiammiferi e accendini (niente selfie , l’era dei cellulari non era ancora arrivata). No woman no cry è cantata da tutto lo stadio in piedi. Poi è tutto un dialogo, cantato e gridato e ritmato, tra il profeta del reggae e lo stadio gremito.

Il vero spettacolo sono gli ottantamil­a che cantano e ballano. Fino a cinque minuti prima delle 23: la luce crudele dei riflettori illumina a giorno, di colpo, gli spalti e il prato e il concerto finisce, dopo due ore esatte di musica. I ragazzi sciamano verso la città, tantissimi arrivati da Salerno, da Trento o dalla Sicilia cercano un prato dove piazzare il sacco a pelo.

Quella lunga giornata era iniziata alle 9 di mattina, quando erano arrivati i ragazzi del servizio d’ordine e gli addetti al palco. Cominciano presto ad arrivare anche gli spettatori. A mezzogiorn­o è già impossibil­e contenere la pressione del pubblico, si aprono i cancelli dello stadio e cominciano ad affluire i ragazzi che subito riempiono il prato verdissimo quasi interament­e coperto da teli bianchi. Inizia la interminab­ile attesa sotto il sole, che morde feroce dopo giorni di pioggia.

Con il passare delle ore, il caldo aumenta, le magliette volano sull’erba, poi i jeans e le gonne, le ragazze improvvisa­no tenute da mare, foulard indiano e mutandine. I più previdenti hanno il costume da bagno.

Si incontrano vecchi amici, se ne trovano di nuovi, ci si abbraccia, si balla, si fuma. Lunghe file ai lavandini per buttarsi un po’ d’acqua fresca addosso. Ma l’attesa non è noia, fa già parte dell’evento. Un panino, la ricerca dell’acqua, nuovi baci, un joint fumato insieme.

L’impazienza cresce piano. Alle 16.30 le prime bordate di fischi. Alle 17 inizia la festa: dal palco (ci pareva immenso, ma era modesto, rispetto a quelli ipertecnol­ogici che vedremo in seguito) parte il blues di Roberto Ciotti. Poi s’esibisce un cantautore napoletano, un certo Pino Daniele, accompagna­to da James Senese e Toni Esposito.

Intanto, nel centro di Milano, il re del reggae si presenta a piedi nudi a giornalist­i e fotografi all’hotel Hilton, joint in mano, attorniato da donne splendide, avvolto da una profumata nuvola di ganjia.

Alle 20, a San Siro è la volta della Average White Band, con un funky che scivola nella disco-music ed è salutato da fischi e lattine tirate sul palco. Il pubblico ormai vuole lui, vuole il profeta della Rastafari revolution, che predica il ritorno dall’esilio di Babilonia all’africa di Hailé Selassié, il

Ras Tafari. Religione, misticismo, ribellione politica, astuzia commercial­e si mischiano e si confondono, volano da Trenchtown, il ghetto di Kingston in Giamaica, a Brixton, il quartiere giamaicano di Londra. Fino agli studi di registrazi­one e agli uffici dei discografi­ci londinesi dove il reggae diventa business di successo planetario ( cachet di Marley a San Siro: 80 milioni di lire, dice il Tg2).

Chi scrive non riesce questa volta a evitare una malattia mortale del giornalism­o, l’utilizzo della prima persona singolare (“Il più lurido di tutti i pronomi”, diceva il Gran Lombardo), perché non solo era presente al rito, ma quel giorno giocava due o tre o quattro ruoli in partita, in uno psichedeli­co intrico di conflitti d’interessi. Ero uno degli ottantamil­a spettatori, naturalmen­te. Ero rimasto magnetizza­to da Marley quando il mio amico- nemico Gualtiero aveva messo per la prima volta sul piatto del suo impianto stereo

Exodus, il migliore degli album del re del reggae. Ma ero anche giovanissi­mo collaborat­ore da Milano del quotidiano Bresciaggi , 5 mila lire a pezzo, per cui ho scritto due lunghi articoli musicali-sociologic­i-politici sul concerto. Ma avevo anche un lavoro: redattore a Radio Città, nata da poco, a cui il promoter musicale Franco Mamone si era appoggiato per organizzar­e il concerto a Milano e a Torino. Radio Città era l’emittente nata dall’esperienza delmovimen­to studentesc­o di Milano, poi diventato Mls (Movimento lavoratori per il socialismo).

“NON CONTA LA FORZA, MA LA COSCIENZA POLITICA”

Insomma: quel giorno ero insieme spettatore e cronista, ma mi ritrovai anche a far parte delle squadre del servizio d’ordine a San Siro, a dispetto della mia muscolatur­a (“Non conta la forza, ma la coscienza politica”, mi aveva detto secco il capo qualche anno prima, al mio arruolamen­to).

San Siro fu l’ultimo strano impegno dei “Katanga”, ormai orfani della politica militante degli anni Settanta. Prima di aprire tutto, subimmo qualche attacco ai cancelli da parte dei collettivi di Autonomia operaia – o forse erano soltanto gruppi di ragazzi decisi a entrare gratis. L’ “impegno” finì, simbolicam­ente, quel giorno e lasciò il campo al “riflusso”. La maggioranz­a dei ragazzi del “movimento” imboccò la strada del “ripiegamen­to nel privato”, una consistent­e minoranza aveva già scelto cupamente la lotta armata.

“Vendemmo soltanto 29 mila biglietti”, dice oggi Mario Giusti, uno degli inventori di Radio Città, “dal punto di vista economico fu un disastro”. Fare i conti oggi è ormai impossibil­e. Certo molti entrarono gratis. Per tutti fu un concerto indimentic­abile. Bob Marley morì in un ospedale di Miami undici mesi dopo, l’11 maggio 1981. Gli anni Settanta furono sepolti con lui. Nel mondo vinceva la Thatcher, in Italia nasceva l’ “edonismo reaganiano”.

Prima e dopo Eravamo in 80 mila, i suoni della Giamaica si univano a messaggi di speranza e ribellione Fu uno snodo: poi piombammo nella stagione del “riflusso”

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FOTO FOTOGRAMMA Quelle luci di 40 anni fa Bob Marley a San Siro nel 1980. A sinistra, il biglietto del concerto
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