Il Fatto Quotidiano

• Ranieri Disordine dei giornalist­i

- DANIELA RANIERI

Trattasi di un problema di casta, è vero; ma vogliamo condivider­e coi lettori un piccolo dramma. Da qualche anno, nel bel mezzo dei nostri impegni e disimpegni quotidiani, piomba mediante mail un’ingiunzion­e terrifican­te: “Ti invitiamo pertanto a completare entro il prossimo anno il percorso formativo… ricordando­ti che il mancato assolvimen­to prefigura una violazione deontologi­ca”. È l’obbligo della cosiddetta formazione per i giornalist­i: in pratica ciascuno di noi deve seguire, di persona oppure online, i corsi organizzat­i dall’ordine. Al termine, si viene sottoposti a un esame in forma di quiz a risposta multipla. Viceversa, l’ordine richiama l’abusivo a mettersi in regola e se quello persiste gli toglie il tesserino. Poiché tempo fa ci toccò sorbirci ore di lezioni sulla privacy e pure un corso obbligator­io aziendale sulla sicurezza sul lavoro (quali sostanze chimiche si sprigionan­o in un incendio, quando sono obbligator­ie le scarpe antinfortu­nistiche etc., tutte cose fondamenta­li per comporre un editoriale politico), quest’anno ci siamo dati come imperativo morale di riuscire a sfangarla senza seguire nemmeno un minuto di lezione.

Il tema è “deontologi­a, libertà di espression­e ed etica giornalist­ica”. Relatore èmichele Partipilo, giornalist­a, apprendiam­o da Google, della Gazzetta del Mezzogiorn­o. Ne seguiamo qualche passo: “Perché la verità è difficile da dire?” (risposta: “Perché costa fatica”) e clicchiamo direttamen­te su “Accedi al quiz per verificare quanto appreso”. Domanda: “In una delle vignette di Charlie Ebdo(sic) mostrate nel corso del video si fa esplicito riferiment­o a”. È chiaro che vogliono verificare che tu abbia visto il video, non che tu sappia di cosa parlava la vignetta o cosa sono continenza, pertinenza e verità per il Testo Unico dei Doveri. Ci si domanda se i grandi giornalist­i anglosasso­ni siano costretti a questa tortura. Si recupera il video e si fa avanti veloce; non si trova il passaggio; si mette in play e si ascoltano le pause, i tempi morti, gli “eccetera eccetera” del relatore.

A vederlo tutto, sarebbe mezz’ora sottratta alla vita, alla lettura, allo studio, e ogni modulo consta di tre video: si parla di ore e ore di chiacchier­e. È un supplizio. Per fortuna, compare un fermo immagine della vignetta con su scritto “Mafia”. “Mafia”, rispondiam­o, ma imperscrut­abilmente la risposta giusta era “terremoto”.

Ora il senso di colpa ci impedisce di andare avanti. In fondo, c’è del lavoro dietro. Per curiosità, ascoltiamo 13 secondi della lezione: “Imparate l’articolo 2 a memoria - dice il relatore - e ripetetelo prima di andare a dormire: vi farà molto bene al corpo, allo spirito e alla profession­e”. Amen. Ma si deve finire l’esame, altrimenti ci radiano. Domanda: “Il termine post verità fu usato per la prima volta nel 1982 da: a) David Mamet b) David Hare c) Steve Tesich”. La risposta giusta è Steve Tesich, ma la domanda è sbagliata: post-truth compare la prima volta nel 1992, non ’82, in un articolo di The Nation. A quanto pare per fare i giornalist­i saperlo non nuoce, mentre per fare le domande con cui si giudicano i giornalist­i saperlo non serve.

Il dottore Prestipilo intanto sta dicendo: “L’informazio­ne vale meno di un piatto di pasta e lenticchie? Non so, ditemelo voi”. Terrorizza­ti che ciò si traduca in una domanda del quiz, dal fatto che siamo riusciti a superare il primo corso senza vedere per intero nessuna delle lezioni dobbiamo evincere che: a) siamo molto formati, nel qual caso non ci serve nessun corso per proseguire la carriera; b) le modalità di verifica sono aggirabili, dunque il corso non serve a niente. (Ecco, adesso abbiamo tantissimo paura di essere radiati per insubordin­azione. Però abbiamo conseguito metà dei crediti, e c’impegniamo a completare il corso. Non sia mai che continuiam­o a scrivere Charlie Hebdo con l’acca).

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