• Ranieri Disordine dei giornalisti
Trattasi di un problema di casta, è vero; ma vogliamo condividere coi lettori un piccolo dramma. Da qualche anno, nel bel mezzo dei nostri impegni e disimpegni quotidiani, piomba mediante mail un’ingiunzione terrificante: “Ti invitiamo pertanto a completare entro il prossimo anno il percorso formativo… ricordandoti che il mancato assolvimento prefigura una violazione deontologica”. È l’obbligo della cosiddetta formazione per i giornalisti: in pratica ciascuno di noi deve seguire, di persona oppure online, i corsi organizzati dall’ordine. Al termine, si viene sottoposti a un esame in forma di quiz a risposta multipla. Viceversa, l’ordine richiama l’abusivo a mettersi in regola e se quello persiste gli toglie il tesserino. Poiché tempo fa ci toccò sorbirci ore di lezioni sulla privacy e pure un corso obbligatorio aziendale sulla sicurezza sul lavoro (quali sostanze chimiche si sprigionano in un incendio, quando sono obbligatorie le scarpe antinfortunistiche etc., tutte cose fondamentali per comporre un editoriale politico), quest’anno ci siamo dati come imperativo morale di riuscire a sfangarla senza seguire nemmeno un minuto di lezione.
Il tema è “deontologia, libertà di espressione ed etica giornalistica”. Relatore èmichele Partipilo, giornalista, apprendiamo da Google, della Gazzetta del Mezzogiorno. Ne seguiamo qualche passo: “Perché la verità è difficile da dire?” (risposta: “Perché costa fatica”) e clicchiamo direttamente su “Accedi al quiz per verificare quanto appreso”. Domanda: “In una delle vignette di Charlie Ebdo(sic) mostrate nel corso del video si fa esplicito riferimento a”. È chiaro che vogliono verificare che tu abbia visto il video, non che tu sappia di cosa parlava la vignetta o cosa sono continenza, pertinenza e verità per il Testo Unico dei Doveri. Ci si domanda se i grandi giornalisti anglosassoni siano costretti a questa tortura. Si recupera il video e si fa avanti veloce; non si trova il passaggio; si mette in play e si ascoltano le pause, i tempi morti, gli “eccetera eccetera” del relatore.
A vederlo tutto, sarebbe mezz’ora sottratta alla vita, alla lettura, allo studio, e ogni modulo consta di tre video: si parla di ore e ore di chiacchiere. È un supplizio. Per fortuna, compare un fermo immagine della vignetta con su scritto “Mafia”. “Mafia”, rispondiamo, ma imperscrutabilmente la risposta giusta era “terremoto”.
Ora il senso di colpa ci impedisce di andare avanti. In fondo, c’è del lavoro dietro. Per curiosità, ascoltiamo 13 secondi della lezione: “Imparate l’articolo 2 a memoria - dice il relatore - e ripetetelo prima di andare a dormire: vi farà molto bene al corpo, allo spirito e alla professione”. Amen. Ma si deve finire l’esame, altrimenti ci radiano. Domanda: “Il termine post verità fu usato per la prima volta nel 1982 da: a) David Mamet b) David Hare c) Steve Tesich”. La risposta giusta è Steve Tesich, ma la domanda è sbagliata: post-truth compare la prima volta nel 1992, non ’82, in un articolo di The Nation. A quanto pare per fare i giornalisti saperlo non nuoce, mentre per fare le domande con cui si giudicano i giornalisti saperlo non serve.
Il dottore Prestipilo intanto sta dicendo: “L’informazione vale meno di un piatto di pasta e lenticchie? Non so, ditemelo voi”. Terrorizzati che ciò si traduca in una domanda del quiz, dal fatto che siamo riusciti a superare il primo corso senza vedere per intero nessuna delle lezioni dobbiamo evincere che: a) siamo molto formati, nel qual caso non ci serve nessun corso per proseguire la carriera; b) le modalità di verifica sono aggirabili, dunque il corso non serve a niente. (Ecco, adesso abbiamo tantissimo paura di essere radiati per insubordinazione. Però abbiamo conseguito metà dei crediti, e c’impegniamo a completare il corso. Non sia mai che continuiamo a scrivere Charlie Hebdo con l’acca).