Il Fatto Quotidiano

Ritratto di Dibba

- • Corrias

Dibba ha la barba di un giorno e le basette western. Gira per Roma in calzoncini e infradito. Ha lo zainetto con mezza minerale. Chiacchier­a con tutti. Ride. Quando controlla l’ora, vuol dire che deve dar da mangiare al pupo, oppure che sta per salire su un Low Cost, direzione altrove.

Altrove è il migliore dei suoi mondi, raggiungib­ile con bagaglio a mano. Gli piace sparire per mesi nel cuore della madre terra, la Pacha Mama, che ha scoperto nella foresta pluviale, benevola in tutto, tranne che per l’umidità, le ingiustizi­e sociali e i maledetti mosquitos che rovinano il sonno intorno al fuoco.

Il suo bello è che quando torna nel nostro mondo di insetticid­i, plastiche e malumori wireless , i fuochi continua a accenderli, ma in mezzo a una piazza o davanti alla tv. Nell’ultimo giro di interviste a raffica, ha dato fuoco all’intero Movimento, con una sola frase esclamativ­a, “Voglio un congresso!”, per poi godersi lo spettacolo delle chiacchier­e a seguire, i tamburi delle molte tribù politiche interne al Movimento che si chiedevano: “Vuole la scissione?”, “Vuole la rivoluzion­e?”, “Vuole diventare il capo politico?”. Fino all ’anatema dell’elevato, che poi sarebbe il divino Grillo, ricomparso dalla penombra estiva di Sant’ilario, per dirgli più o meno: falla finita.

Ma Dibba, in arte Alessandro Di Battista, 42 anni all’anagrafe, meno della metà nel cuore, non ha neanche cominciato il suo nuovo viaggio che stavolta si configura nell’odissea del suo ritorno. Vuole iscriversi anche lui al mondo del dopo Covid-19, archiviare nella differenzi­ata il cartonato di Vito Crimi, battersi per la guida delmovimen­to sul futuro del quale annuncia minaccioso: “Ho le mie idee!”, rivelando la prima: “Tornare all’acqua pubblica”, non di strettissi­ma attualità, salvo che nell’incantevol­e Patagonia. E in subordine “l’auto pubblica”, cioè il car sharing, “migliaia di auto elettriche da condivider­e”. Idea che propone non solo per decongesti­onare il traffico di Roma Nord, ma come viatico alla nuova economia nazionale. Aggiungend­o: “Se avete idee, scrivetemi”.

Tutti, o quasi tutti, in gioventù, siamo stati Dibba. Almeno fino a quando la complessit­à del mondo vero ci ha insegnato a diffidare delle sue semplifica­zioni – buono-cattivo, giusto-ingiusto – e che anche lo spensierat­o altruismo terzomondi­sta fa parte dei privilegi occidental­i, avendo case riscaldate e abbastanza proteine per sceglierlo tra le molte offerte culturali, nel grande magazzino delle identità possibili. Ognuna con il suo guardaroba adeguato.

Direbbe lo psicologo che la sua identità l’ha scelta in opposizion­e a quella del padre Vittorio, fascistone d’alti ideali (“datemi il potere assoluto per sei mesi e risolvo tutti i problemi d’it ali a”) iracondo contro “la ciurma di delinquent­i che ci governa”, tanta rancorosa incontinen­za a copertura (s’è scoperto poi) della modesta aziendina di ceramiche sanitarie piena di debiti con le banche, col fisco e con i dipendenti in nero, giustifica­ta con il solito lamento del tengo famiglia.

I molto cinici che detestano la sua aria dinoccolat­a da eterno studente fuori corso, non sanno che Alessandro, dopo il liceo scientific­o, si è laureato una volta e mezzo, prima al Dams di

Roma Tre – che sarebbe Discipline di arte, musica e spettacolo – poi alla Sapienza con un master sulla Tutela internazio­nale dei diritti umani che ha maneggiato per due anni nelle Ong dell’africa centrale e in una dozzina di Paesi sudamerica­ni, dall’argentina a Panama, passando per il Cile, l’ecuador, Cuba.

Viaggi diventati in gran parte l’inchiostro di quattro libri, dove si annovera “il mormorio della foresta che diventa silenzio”, ci si immerge “nella giungla rigenerant­e”, si ammira “il fiume che scende placido”, si cammina con il solo “bagaglio maya”, si elogia l’autostop, “che è come fare l’amore”, ha le stesse regole basilari “sorridi, non disperarti, se qualche volta non ci riesci può succedere”. Per poi scoprire la morte “che in Guatemala non si nasconde come da noi”. E ogni volta rimettersi in viaggio grazie ai “piedi che scottano”, verso la vera meta, che è sempre interiore: “Sentivo crescere in me quel senso di appartenen­za alla mia specie: quelle umana”.

Peccato che in quegli anni viaggianti non abbia mai trovato il tempo di fermarsi e riflettere su quanti rivoluzion­ari latinoamer­icani siano diventati più despoti dei despoti che hanno sostituito, come in Nicaragua, in Venezuela, e che dietro la retorica “dell’uomo nuovo” prima o poi spunti sempre il filo spinato dei campi di rieducazio­ne.

Tra i contadini e le multinazio­nali, Dibba non ha mai dubbi, sceglie sempre i contadini, anche se fanno vite infami, coltivano coca e muoiono di stenti, poiché il pane che portano le multinazio­nali, anche quando sfama, è sempre avvelenato.

Così come è sempre avvelenata la politica dei politicant­i, anche quando provano a sfamare la mediocre democrazia che ci riguarda, e che lui chiama “la repubblica dello spritz”, intesa come l’aperitivo che precede l’inciucio, oggi governata da una coalizione così fragile che bombardarl­a è un gioco da ragazzi. Chi se ne frega delle conseguenz­e, puoi sempre cambiare paesaggio, tornare in Centro America a scaricare cemento e a tradurre i versi di Neruda, con una Corona fresca al tramonto.

Non a caso il mito di Dibba è l’eroe rivoluzion­ario in transito, il Che Guevara dei Diari della motociclet­ta, che lui ha provato a replicare a cavallo dello scooterone a tre ruote, passando dalle Ande agli Appennini, con il suo “Costituzio­ne Coast to Coast”, contro il referendum del Rottamator­e, anno 2016.

Perché poi la motociclet­ta, senza troppe responsabi­lità e il vento in faccia, è la parte bella della storia, come lo è la giovinezza, ma solo a patto che si concluda, non necessaria­mente in modo tragico, come finì quella del Che in Bolivia. Per crescere gli basterebbe capire che nella vita, ma specialmen­te in politica, la purezza è (quasi sempre) il vetriolo dell’anima.

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Illustrazi­one di Francesco Federighi

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