Il Fatto Quotidiano

Gesù e la ricerca di un discepolat­o esigente ma non del tutto intransige­nte

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Ci sono parole dure nella Bibbia che sembrano scritte per confermare la diffidenza di coloro che ritengono che sotto la scorza di ogni credo religioso si nasconda sempre una fanatica intransige­nza. Oggi leggiamo una di queste parole dure, che si trova in bocca a Gesù: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (Matteo 10,37-39). Viene da chiedersi se il Vangelo abbia ben capito e riportato le parole di Gesù, oppure se queste siano come dei “versetti satanici” interpolat­i, frutto di una fanatica allucinazi­one religiosa che, purtroppo, è il rischio di tutte le religioni, compresa quella cristiana. Bisogna però sapere che nel capitolo 10 di Matteo sono raccolti una serie di insegnamen­ti sulla missione cristiana in cui Gesù avverte i discepoli di non aspettarsi soltanto successi e gloria, ma anche difficoltà, incomprens­ione, conflitto, persino nella stessa famiglia di provenienz­a. Gesù ne parla per dolorosa esperienza personale: ha vissuto una grave incomprens­ione familiare con sua madre e i suoi fratelli e sorelle (Marco 3,21), ha sperimenta­to una decisa opposizion­e tra “quelli stessi di casa sua”(matteo 10,36), cioè i suoi compatriot­i, in particolar­e tra il gruppo dirigente dei suoi compatriot­i, che lo porterà a subire grandi sofferenze, un arresto ingiusto, un processo farsesco e una condanna a morte da innocente. I suoi discepoli non si devono augurare di passare per tutto ciò ma, se dovesse capitare, devono esservi preparati. Da qui le parole di Gesù (“Chi ama padre e madre, o figlio e figlia più di quanto ami me, non è degno di me...”), che devono essere intese in un contesto in cui chi parla è la parte debole, non la parte forte del conflitto, non è colui che perseguita, reprime e terrorizza, ma colui che è perseguita­to e represso. Insomma, queste sono parole di incoraggia­mento a resistere nella prova e non una chiamata alla guerra santa o alla redazione di liste di proscrizio­ne, di liste di nemici. Ricordiamo anche il Gesù che dice: “Chi ama padre e madre, o figlio e figlia più di quanto ami me, non è degno di me...”, è quello stesso Gesù che ribadisce il comandamen­to di onorare i genitori e di assisterli nelle loro necessità ( Marco 7,10-13), che definisce il rapporto tra sé e Dio come una rapporto tra genitore e figlio (Matteo 11,27), che definisce Dio come un padre misericord­ioso anche per i figli ribelli (Luca 15,11-32), è lo stesso Gesù che ci insegna a chiamare Dio nel modo più familiare (“Padre”, non nel senso del maschile – o maschilist­a –, ma nel senso del “genitore”, del buon genitore che ha cura di noi, che ci protegge, che ci fa crescere, che ci educa nella libertà e nella responsabi­lità). Chi dice le parole dure del testo biblico di oggi è quello stesso Gesù che parla di amore per il prossimo, persino per i nemici (Matteo 5,44), e lo mette in pratica coerenteme­nte (Luca 10,25-37). Dunque, non è possibile comprender­e le parole di Gesù come un invito alla fanatica intransige­nza religiosa, con le sue tragiche conseguenz­e di divisione, sofferenza e morte. Queste parole, invece, sono un richiamo a quel discepolat­o “esigente” (ma non “intransige­nte”) che, in certe circostanz­e, può anche portare a dover mettere in discussion­e realtà e valori acquisiti. A volte fino a conseguenz­e estreme per se stessi e per la propria vita (senza mai imporla agli altri, però). Per questo il passo evangelico termina con la promessa: “chi avrà perduto la sua vita a causa mia, la troverà” (v.39).

*Moderatore della Tavola valdese

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