Al di là del “climax” e della censura, tutti meritano una risata
Mia nonna mi fa: “Tuo padre è ebreo”. “Davvero? E dov’è? A Gerusalemme? Perché non lo so” (risate). E lei: “No, è in America. Sta scappando dalla legge”. E io: “Oh. Ok”. (È avvilita; silenzio del pubblico; fa un gesto come per tranquillizzare sul silenzio). Questa parte è vera (risate fragorose). Tiffany Haddish
La settimana scorsa abbiamo ragionato sulla satira servendoci del gradiente satira > cinismo > fare il cazzaro > fare lo stronzo > sfottò fascistoide, uno strumento di tipo catastale che ci fa comprendere dove siamo con il nostro senso morale, sia che si faccia satira, sia che la si giudichi. Il gradiente non appartiene al mondo delle norme, ma a quello delle descrizioni. Ci aiuta a capire, fra l’altro, il perché di certe reazioni del pubblico, e se sono giustificate oppure no. Come si chiama una donna di colore che ha avuto sette aborti? Una combattente contro il crimine (Lisa Lampanelli). Questa battuta razzista sconcertò molti dei suoi fan, ma non tutti. Se godete di questa gag state confondendo la satira con ciò che non lo è. Oltre che essere delle teste di cazzo.
Qual è la reazione corretta a una gag satirica? Non esiste la reazione “corretta”: ogni reazione dipende dalla propria ideologia-cultura-moralità; ma il razzismo non è un’opinione: è un reato, ed è sempre inaccettabile, anche sotto forma di gag. Prendete adesso questa battuta di Frankie Boyle: La gente dice che Steve Jobs è morto troppo presto. Io la trovo una metafora perfetta di come la sua ditta tratta la vita delle batterie. Per me è solo una battuta cinica. Per voi? Oppure questa: Vorrei avere l’aids, così potrei mordere qualcuno (Jim Norton). Altra battuta cinica; ma la mia è solo una delle interpretazioni possibili, che sostengo con argomenti. Né va dimenticato che l’arte partecipa di una certa dose di ambiguità, e questo spiega il lavoro di critici e studiosi.
E Andreotti che si eccita a guardare il corpo di Moro crivellato di proiettili nella Renault? Perché quella era satira, e la vignettaccia di Charlie Hebdosul terremoto a L’aquila no? Quando siete nel dubbio, chiedetevi sempre: “Chi è il bersaglio?” In quel mio racconto, il bersaglio non era la vittima (Moro), ma i suoi carnefici. Era un racconto di satira grottesca, e quando fu letto in un teatro di Genova (2003) suscitò emozione e applausi. La polemica fu creata il giorno dopo da un’agenzia Ansa che raccontava, mentendo, di un attore in scena che sodomizzava il cadavere di
Moro. Mostrai il filmato della serata e la polemica diffamatoria si spense. Altro caso: durante il sequestromoro, il Male pubblicò la foto BR di Moro in prigionia, aggiungendo la didascalia: “Scusate, abitualmente vesto Marzotto”. Quella non era più satira, ma sfottò fascistoide: sbeffeggiava la vittima vera di carnefici veri. Secondo me, ovviamente. Secondo quelli del Male , no. E si torna al discorso delle differenze ideologiche.
CENSURA DELLA SATIRA. Senza impatto comunicativo, la satira non ha conseguenze (è uno dei motivi per cui sul web ve ne lasciano fare quanta ne volete). Per avere impatto occorrono cultura, competenza tecnica, tenacia e volume. La censura (il potere e i suoi emissari) agisce sul quarto fattore, per silenziarvi dall’esterno impedendovi l’accesso alla tv; i bastardi di complemento (i media complici e gli stronzi) agiscono sul terzo, per silenziarvi dall’interno (demotivazione). “La curiosità è la forma più pura di insubordinazione” (Nabokov, 1947).
L’ARTE DELLA PRASSI divertente. Ogni arte è informata dallo schema tensione/distensione, che contribuisce all’esperienza estetica (insieme con altri fattori: complessità dello stimolo, simmetria, familiarità &c.) e media le risposte emotive alle opere artistiche ( Lehne & Koelsch, 2015). La prassi divertente consiste in strategie che creano una tensione emotiva e cognitiva, al fine di sorprendere l’uditorio. La premessa di una gag introduce il mostro minaccioso ( una situazione di conflitto, dissonanza, incertezza) che attiva nella coscienza procedure predittive di eventi carichi di significato emotivo, e negli istinti uno stimolo all’azione (lotta/fuga); la fine della gag ( punchli ne) genera una sorpresa giocosa rispetto all’evento temuto ( conclusione dell’allarme emotivo-cognitivo); e in una frazione di secondo la coscienza ritorna a uno stato cognitivo consonante, scaricando nel riso l’attivazione motoria inutilizzata. È la costruzione della tensione emotivo-cognitiva, cioè la premessa della gag, a rivelare l’abilità di un comico (Ramachandran, 1998). Steve Martin ( 2007) racconta che, agli inizi della carriera, un trattato sulla comicità lo fece riflettere proprio su questo: “E se non ci fossero punchline? Se non ci fossero indicatori? Se creassi tensione senza mai rilasciarla? Se mi dirigessi verso un climax, ma poi facessi un anti-climax? Cosa farebbe il pubblico con tutta quella tensione? In teoria, essa dovrebbe sfogarsi, qualche volta. Ma se continuassi a negargli la formalità di una punchline, il pubblico alla fine sceglierebbe da sé il punto dove ridere, essenzialmente per disperazione”. Tre anni fa, la comica australiana Hannah Gadsby fece rumore con un monologo (Nanette, 2017) in cui rifiutava polemicamente di risolvere con battute la tensione suscitata nel pubblico dalla sua narrazione di uno stupro omofobico subito a 17 anni. Gadsby rifiutò il ruolo tradizionale della vittima comica, perché l’omofobia e il crimine sessuale non sono uno scherzo. Imputò però il problema alla comicità, e qui sbagliava: scaricare la tensione emotiva con una punchline non implica per forza la banalizzazione ( da Aristofane a Tiffany Haddish, sono migliaia i comici che lo dimostrano). Una risata, come abbiamo visto nella prima puntata, è l’u cc is io ne metaforica di un capro espiatorio. Fare il comico significa accettare questo ruolo sociale: il pubblico paga non per ridere dei tuoi problemi, ma grazie ai tuoi problemi, veri o immaginari che siano (il realismo non è l’unico modo per dare valore al racconto di un dramma, né il migliore: se così fosse, non esisterebbe l’arte). Il nuovo monologo della Gadsby (Douglas, 2019) è pieno di battute: “Nanette è il motivo per cui tutti quanti sono qui. Me compresa. Avessi saputo che il trauma è così popolare, il mio avrei potuto gestirlo meglio. Ricavarne almeno una trilogia. Fatemi capire: avete visto Nanette e avete pensato ‘Ne voglio ancora’”? Ea proposito del medico che ha dato il nome al “sacco di Douglas”, una piccola cavità fra utero e retto, da cui viene il titolo del monologo: “È incredibile quanto poco debbano fare gli uomini per essere ricordati”.