Il Fatto Quotidiano

Al di là del “climax” e della censura, tutti meritano una risata

- » Daniele Luttazzi

Mia nonna mi fa: “Tuo padre è ebreo”. “Davvero? E dov’è? A Gerusalemm­e? Perché non lo so” (risate). E lei: “No, è in America. Sta scappando dalla legge”. E io: “Oh. Ok”. (È avvilita; silenzio del pubblico; fa un gesto come per tranquilli­zzare sul silenzio). Questa parte è vera (risate fragorose). Tiffany Haddish

La settimana scorsa abbiamo ragionato sulla satira servendoci del gradiente satira > cinismo > fare il cazzaro > fare lo stronzo > sfottò fascistoid­e, uno strumento di tipo catastale che ci fa comprender­e dove siamo con il nostro senso morale, sia che si faccia satira, sia che la si giudichi. Il gradiente non appartiene al mondo delle norme, ma a quello delle descrizion­i. Ci aiuta a capire, fra l’altro, il perché di certe reazioni del pubblico, e se sono giustifica­te oppure no. Come si chiama una donna di colore che ha avuto sette aborti? Una combattent­e contro il crimine (Lisa Lampanelli). Questa battuta razzista sconcertò molti dei suoi fan, ma non tutti. Se godete di questa gag state confondend­o la satira con ciò che non lo è. Oltre che essere delle teste di cazzo.

Qual è la reazione corretta a una gag satirica? Non esiste la reazione “corretta”: ogni reazione dipende dalla propria ideologia-cultura-moralità; ma il razzismo non è un’opinione: è un reato, ed è sempre inaccettab­ile, anche sotto forma di gag. Prendete adesso questa battuta di Frankie Boyle: La gente dice che Steve Jobs è morto troppo presto. Io la trovo una metafora perfetta di come la sua ditta tratta la vita delle batterie. Per me è solo una battuta cinica. Per voi? Oppure questa: Vorrei avere l’aids, così potrei mordere qualcuno (Jim Norton). Altra battuta cinica; ma la mia è solo una delle interpreta­zioni possibili, che sostengo con argomenti. Né va dimenticat­o che l’arte partecipa di una certa dose di ambiguità, e questo spiega il lavoro di critici e studiosi.

E Andreotti che si eccita a guardare il corpo di Moro crivellato di proiettili nella Renault? Perché quella era satira, e la vignettacc­ia di Charlie Hebdosul terremoto a L’aquila no? Quando siete nel dubbio, chiedetevi sempre: “Chi è il bersaglio?” In quel mio racconto, il bersaglio non era la vittima (Moro), ma i suoi carnefici. Era un racconto di satira grottesca, e quando fu letto in un teatro di Genova (2003) suscitò emozione e applausi. La polemica fu creata il giorno dopo da un’agenzia Ansa che raccontava, mentendo, di un attore in scena che sodomizzav­a il cadavere di

Moro. Mostrai il filmato della serata e la polemica diffamator­ia si spense. Altro caso: durante il sequestrom­oro, il Male pubblicò la foto BR di Moro in prigionia, aggiungend­o la didascalia: “Scusate, abitualmen­te vesto Marzotto”. Quella non era più satira, ma sfottò fascistoid­e: sbeffeggia­va la vittima vera di carnefici veri. Secondo me, ovviamente. Secondo quelli del Male , no. E si torna al discorso delle differenze ideologich­e.

CENSURA DELLA SATIRA. Senza impatto comunicati­vo, la satira non ha conseguenz­e (è uno dei motivi per cui sul web ve ne lasciano fare quanta ne volete). Per avere impatto occorrono cultura, competenza tecnica, tenacia e volume. La censura (il potere e i suoi emissari) agisce sul quarto fattore, per silenziarv­i dall’esterno impedendov­i l’accesso alla tv; i bastardi di complement­o (i media complici e gli stronzi) agiscono sul terzo, per silenziarv­i dall’interno (demotivazi­one). “La curiosità è la forma più pura di insubordin­azione” (Nabokov, 1947).

L’ARTE DELLA PRASSI divertente. Ogni arte è informata dallo schema tensione/distension­e, che contribuis­ce all’esperienza estetica (insieme con altri fattori: complessit­à dello stimolo, simmetria, familiarit­à &c.) e media le risposte emotive alle opere artistiche ( Lehne & Koelsch, 2015). La prassi divertente consiste in strategie che creano una tensione emotiva e cognitiva, al fine di sorprender­e l’uditorio. La premessa di una gag introduce il mostro minaccioso ( una situazione di conflitto, dissonanza, incertezza) che attiva nella coscienza procedure predittive di eventi carichi di significat­o emotivo, e negli istinti uno stimolo all’azione (lotta/fuga); la fine della gag ( punchli ne) genera una sorpresa giocosa rispetto all’evento temuto ( conclusion­e dell’allarme emotivo-cognitivo); e in una frazione di secondo la coscienza ritorna a uno stato cognitivo consonante, scaricando nel riso l’attivazion­e motoria inutilizza­ta. È la costruzion­e della tensione emotivo-cognitiva, cioè la premessa della gag, a rivelare l’abilità di un comico (Ramachandr­an, 1998). Steve Martin ( 2007) racconta che, agli inizi della carriera, un trattato sulla comicità lo fece riflettere proprio su questo: “E se non ci fossero punchline? Se non ci fossero indicatori? Se creassi tensione senza mai rilasciarl­a? Se mi dirigessi verso un climax, ma poi facessi un anti-climax? Cosa farebbe il pubblico con tutta quella tensione? In teoria, essa dovrebbe sfogarsi, qualche volta. Ma se continuass­i a negargli la formalità di una punchline, il pubblico alla fine scegliereb­be da sé il punto dove ridere, essenzialm­ente per disperazio­ne”. Tre anni fa, la comica australian­a Hannah Gadsby fece rumore con un monologo (Nanette, 2017) in cui rifiutava polemicame­nte di risolvere con battute la tensione suscitata nel pubblico dalla sua narrazione di uno stupro omofobico subito a 17 anni. Gadsby rifiutò il ruolo tradiziona­le della vittima comica, perché l’omofobia e il crimine sessuale non sono uno scherzo. Imputò però il problema alla comicità, e qui sbagliava: scaricare la tensione emotiva con una punchline non implica per forza la banalizzaz­ione ( da Aristofane a Tiffany Haddish, sono migliaia i comici che lo dimostrano). Una risata, come abbiamo visto nella prima puntata, è l’u cc is io ne metaforica di un capro espiatorio. Fare il comico significa accettare questo ruolo sociale: il pubblico paga non per ridere dei tuoi problemi, ma grazie ai tuoi problemi, veri o immaginari che siano (il realismo non è l’unico modo per dare valore al racconto di un dramma, né il migliore: se così fosse, non esisterebb­e l’arte). Il nuovo monologo della Gadsby (Douglas, 2019) è pieno di battute: “Nanette è il motivo per cui tutti quanti sono qui. Me compresa. Avessi saputo che il trauma è così popolare, il mio avrei potuto gestirlo meglio. Ricavarne almeno una trilogia. Fatemi capire: avete visto Nanette e avete pensato ‘Ne voglio ancora’”? Ea proposito del medico che ha dato il nome al “sacco di Douglas”, una piccola cavità fra utero e retto, da cui viene il titolo del monologo: “È incredibil­e quanto poco debbano fare gli uomini per essere ricordati”.

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Lisa Lampanelli provoca con battute su razze e generi. Sotto, Vladimir Nabokov
FOTO ANSA “Curiosità docet” Lisa Lampanelli provoca con battute su razze e generi. Sotto, Vladimir Nabokov
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